Power feminism versus victim feminism
Uno dei testi fondanti della "critica
alla vittima" è Fire with fire di
Naomi Wolf, libro che, pubblicato nel 1993, dà avvio al post-femminismo.
Per l'autrice, negli anni
Ottanta le donne hanno acquisito, grazie al movimento che le rappresenta,
maggiore rilievo, visibilità e considerazione politica, hanno potuto accedere alla sfera pubblica e ricoprire
incarichi manageriali in misura molto più ampia rispetto al passato. La parità
fra i sessi potrebbe rivelarsi, dunque, un obiettivo facilmente e rapidamente raggiungibile,
se non fosse ostacolato sia dalla scarsa
fiducia delle donne nella potenza dei propri desideri e nella capacità di
cogliere le opportunità che il sistema politico ed economico offre a tutti
che dall'esistenza di una corrente del
femminismo che, per affrontare le sfide del presente, adotta atteggiamenti
inappropriati e controproducenti. Naomi Wolf lo definisce "femminismo
vittimista" (victim feminism), cui ne contrappone un altro in grado di
esaltare la forza delle donne (power feminism).
Il primo, a suo dire, esorta le
donne ad assumere lo status di vittime della violenza, del potere maschile o
del patriarcato ed eleva la sofferenza a merito, ingenerando
un senso di impotenza, di debolezza, di passività, di disconoscimento
della propria forza interiore. Idealizza il genere femminile rappresentandolo
come ontologicamente incline al pacifismo, alla cura e alla cooperazione,
mentre concepisce gli uomini come
naturalmente propensi all'aggressività, alla violenza e alla competitività. Sul piano dei comportamenti sessuali si
rivela moralistico, giudicante e prescrittivo. Celebra l'uguaglianza, l'anonimato,
la sorellanza e valuta criticamente, in ragione del suo anticapitalismo, l'affermazione
personale e il perseguimento del successo economico, politico e sociale.
Il power feminism presenta
caratteri opposti: esalta la forza delle donne e le incita ad appropriarsi del potere;
riconosce che l'aggressività, la violenza, la competitività sono costitutive
tanto dell'identità femminile quanto di quella maschile, combatte il sessismo,
ma non è misandrico, non esprime giudizi moralistici sulla sessualità,
valorizza l'individuo, celebra l'aspirazione e il raggiungimento del successo e l'acquisizione della ricchezza.
Psicologizzazione e responsabilizzazione
Naomi Wolf travolge e
amalgama nella sua critica mistificante, confusa e semplicistica femminismo
della differenza, radicale, materialista, marxista, anarchico, black in quanto
accomunati, a suo parere, dall'identificazione delle donne come vittime, lemma
assunto nell'accezione di "oppresse", una realtà che l'autrice nega
in quanto disconosce la potente e sistematica influenza che le categorie di
genere, classe e razza esercitano sulla collocazione sociale dei soggetti, sul
loro accesso alle risorse, sull'attribuzione dei ruoli, sulla divisione del lavoro,
sulle discriminazioni, sulla violenza, sulle posizioni gerarchiche, sulle
opportunità e sulla gamma di scelte disponibili, nonché sui rapporti di dominio
e di sfruttamento esistenti.
La saggista statunitense
attribuisce ad un tratto caratteriale, la "forza femminile", il
potere taumaturgico di infrangere le barriere
rappresentate da questi sistemi di classificazione e di inquadramento
economico e sociale degli individui. Ricorre in tal modo alla
psicologizzazione, ossia all'interpretazione della realtà in termini
psicologici ed individualistici piuttosto che politici, economici e sociali,
"un meccanismo potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione
e la potenziale ribellione", " una tattica di depoliticizzazione a
sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti", come lo
definisce la psicologa sociale e femminista materialista Patrizia Romito.
Inoltre, l'enfatizzazione
della forza individuale come elemento in grado di rimuovere tutti gli ostacoli disloca sulle vittime la responsabilità
dell'oppressione che subiscono, un processo questo che si rivela essere una
delle principali modalità contemporanee di esercizio del dominio.
In un interessante saggio
intitolato Les figures de la domination, pubblicato sulla Revue française de sociologie Danilo Martuccelli, docente di
sociologia all'Università Paris-Decartes, individua nel principio di responsabilizzazione uno dei
principali dispositivi di iscrizione soggettiva della dominazione. Esso si
sostanzia nell'ingiunzione all'individuo a percepirsi, sempre e ovunque,
responsabile non solo delle proprie azioni, ma anche degli eventi che gli
capitano. Di qui la sollecitazione a mobilitare
le risorse interiori per agire in modo
efficace, per affrontare e risolvere da solo qualsiasi problema (dalla
violenza, alla povertà, alla disoccupazione). In caso di fallimento, il
soggetto, incitato ad assumersi i rischi della propria condizione, viene
colpevolizzato, processo che consente alla società di sottrarsi a qualsiasi
tipo di responsabilità nei confronti dei suoi componenti più fragili e che
permette, al contempo, agli appartenenti ai ceti dominanti di legittimare sia
la propria posizione che le diseguaglianze esistenti. [cfr. anche Caroline
Guibet Lafaye, La domination sociale dans le contexte contemporain in Recherches sociologiques et anthropologiques ]
Se, infatti, lo status di un individuo viene attribuito interamente al merito,
all'impegno, alla forza interiore, è evidente come la ripartizione disuguale
della ricchezza, delle risorse, dei mezzi di produzione finisca per apparire
equa.
Quanto alla violenza maschile
sulle donne, se si ritiene di poterla sconfiggere proponendo modelli femminili che incarnano i "valori"
della potenza e del successo, ciò significa non solo che si ignora la dinamica del
fenomeno, la composizione sociale e il carattere delle vittime, fra le quali si
annoverano anche brillanti e determinate professioniste, ma, soprattutto, che,
consapevolmente o meno, si imputa a quelle fra loro che non sono in condizioni
di poterne uscire rapidamente la
responsabilità di subirla. Si profila così il rischio di innescare un processo
di colpevolizzazione e di stigmatizzazione delle vittime disprezzate in quanto reputate fragili,
impotenti, passive, in una parola, perdenti, mentre il ruolo dei maltrattanti
viene occultato.
Un processo già in atto,
anzi, dominante, come attesta il fatto che il 65,9% degli oltre 1300 studenti e studentesse delle scuole
secondarie di secondo grado cui è stato somministrato di recente un questionario sulla violenza di
genere condivida l'affermazione secondo cui " se una donna viene maltrattata continuamente la colpa è sua perché continua a vivere con quest’uomo".
Le femministe non dovrebbero
contrastare queste radicate convinzioni? E pensano di farlo contrapponendo le
donne vincenti e di successo a quelle deboli e perdenti?
Ad essere rimossi sono, ad
ogni modo,
i rapporti sociali di potere, di dominio che si stabiliscono fra i sessi, così come fra le classi.
Il testo di Naomi Wolf si
presta ad ulteriori, rapide considerazioni.
Nessuna pensatrice
femminista, che io sappia, interpreta la violenza come un tratto psicologico
costitutivo della natura maschile, ma la considera piuttosto come una manifestazione
di relazioni imperniate sull'oppressione e sulla dominazione. Non mi soffermo, però, su questo punto già
trattato in modo acuto e pertinente da altri, in particolare da Luisa Betti , da Massimo Lizzi e
dal Ricciocorno
Contrariamente a quanto
ritiene Wolf, poi, affrontare il tema della violenza e rappresentarla non
contribuisce a riprodurla, ma, al contrario, a rivelarla e a denunciarla, facendola affiorare dagli imperscrutabili
recessi della vita privata, per poterla
efficacemente combattere. O si pensa
forse di sconfiggerla occultandola e rimuovendola dal discorso pubblico?
Non si comprende, infine,
perché il successo, il conseguimento di uno status sociale elevato,
l'arricchimento, l'accesso al potere debbano rappresentare aspirazioni e valori condivisi da tutte le donne. Perché dovrebbe essere considerato un bene
concorrere al funzionamento del modo di produzione capitalista e alla
riproduzione dei rapporti di dominio, di oppressione e di sfruttamento che lo
caratterizzano?
La forza delle oppresse
Non vorrei che dalla lettura dell' articolo si deducesse la mia contrarietà
ad evocare la "forza" del femminismo. Al contrario! La ritengo fondamentale,
ma la interpreto come il potere che scaturisce dalla consapevolezza della propria
condizione di oppresse e dalla volontà di opporvisi e di lottare per la liberazione
individuale e collettiva delle donne.
Vorrei pertanto concludere il post con le splendide parole di Christine Delphy,
la fondatrice del femminismo materialista:
"...Molte
donne tengono sulla propria oppressione un discorso teorico. Ma la lotta
politica, se non è alimentata dall'esperienza vissuta, quasi carnale, della
realtà dell'oppressione, diventa una battaglia filantropica. E quando le donne
diventano le filantrope di se stesse e non ricordano più, o vogliono
dimenticare, che sono loro le umiliate e offese di cui parlano, perdono la loro
forza. Difendere, ritrovare le sorgenti di questa forza è un'altra delle sfide
del nuovo secolo per il movimento femminista. E per tutti i movimenti che
lottano contro l'oppressione."
non è certo una aspirazione di tutte le donne l'arricchimento ma è un'aspirazione che può esistere negli uomini come nelle donne, e concordo col post sulla rappresentazione della violenza ma raccontare donne forti e potenti (che esistono) non significa condannare le persone meno forti
RispondiEliminaD'accordo, Paolo. La questione diventa però problematica nel momento in cui si gioca sulla contrapposizione fra donne deboli e donne forti e ci si avvale della descrizione di queste ultime per occultare l'esistenza della violenza maschile o per attribuire alle vittime dei maltrattamenti la responsabilità di subirli.
RispondiEliminacertamente. In generale il messaggio di responsabilizzarsi è positivo ma nessuno è responsabile di eventuali maltrattamenti che subisce specie in famiglia
Eliminaresponsabilizzarsi inteso anche come non piangersi addosso e vale per uomini e donne
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