lunedì 15 dicembre 2014

Un femminismo per donne ricche e vincenti. E' davvero auspicabile?


Power feminism versus victim feminism
Uno dei testi fondanti della "critica alla vittima" è Fire with fire di Naomi Wolf, libro che, pubblicato nel 1993, dà avvio al post-femminismo.
Per l'autrice, negli anni Ottanta le donne hanno acquisito, grazie al movimento che le rappresenta, maggiore rilievo, visibilità e considerazione politica, hanno  potuto accedere alla sfera pubblica e ricoprire incarichi manageriali in misura molto più ampia rispetto al passato. La parità fra i sessi potrebbe rivelarsi, dunque, un obiettivo facilmente e rapidamente raggiungibile, se non fosse ostacolato  sia dalla scarsa fiducia delle donne nella potenza dei propri desideri e nella capacità di cogliere le opportunità che il sistema politico ed economico offre a tutti che  dall'esistenza di una corrente del femminismo che, per affrontare le sfide del presente, adotta atteggiamenti inappropriati e controproducenti. Naomi Wolf lo definisce "femminismo vittimista" (victim feminism), cui ne contrappone un altro in grado di esaltare la forza delle donne (power feminism).
Il primo, a suo dire, esorta le donne ad assumere lo status di vittime della violenza, del potere maschile o del patriarcato ed eleva la sofferenza a merito,  ingenerando  un senso di impotenza, di debolezza, di passività, di disconoscimento della propria forza interiore. Idealizza il genere femminile rappresentandolo come ontologicamente incline al pacifismo, alla cura e alla cooperazione, mentre  concepisce gli uomini come naturalmente propensi all'aggressività, alla violenza e alla competitività.  Sul piano dei comportamenti sessuali si rivela moralistico, giudicante e prescrittivo. Celebra l'uguaglianza, l'anonimato, la sorellanza e valuta criticamente, in ragione del suo anticapitalismo, l'affermazione personale e il perseguimento del successo economico, politico e sociale.
Il power feminism presenta caratteri opposti: esalta la forza delle donne e  le incita ad appropriarsi del potere; riconosce che l'aggressività, la violenza, la competitività sono costitutive tanto dell'identità femminile quanto di quella maschile, combatte il sessismo, ma non è misandrico, non esprime giudizi moralistici sulla sessualità, valorizza l'individuo, celebra l'aspirazione e il raggiungimento  del successo e l'acquisizione della ricchezza.
 
Psicologizzazione e responsabilizzazione
Naomi Wolf travolge e amalgama nella sua critica mistificante, confusa e semplicistica femminismo della differenza, radicale, materialista, marxista, anarchico, black in quanto accomunati, a suo parere, dall'identificazione delle donne come vittime, lemma assunto nell'accezione di "oppresse", una realtà che l'autrice nega in quanto disconosce la potente e sistematica influenza che le categorie di genere, classe e razza esercitano sulla collocazione sociale dei soggetti, sul loro accesso alle risorse, sull'attribuzione dei ruoli, sulla divisione del lavoro, sulle discriminazioni, sulla violenza, sulle posizioni gerarchiche, sulle opportunità e sulla gamma di scelte disponibili, nonché sui rapporti di dominio e di sfruttamento esistenti.
La saggista statunitense attribuisce ad un tratto caratteriale, la "forza femminile", il potere taumaturgico di infrangere le barriere  rappresentate da questi sistemi di classificazione e di inquadramento economico e sociale degli individui. Ricorre in tal modo alla psicologizzazione, ossia all'interpretazione della realtà in termini psicologici ed individualistici piuttosto che politici, economici e sociali, "un meccanismo potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione e la potenziale ribellione", " una tattica di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti", come lo definisce la psicologa sociale e femminista materialista Patrizia Romito.
Inoltre, l'enfatizzazione della forza individuale come elemento in grado di rimuovere tutti gli ostacoli  disloca sulle vittime la responsabilità dell'oppressione che subiscono, un processo questo che si rivela essere una delle principali modalità contemporanee di esercizio del dominio.
In un interessante saggio intitolato Les figures de la domination pubblicato sulla Revue française de sociologie Danilo Martuccelli, docente di sociologia all'Università Paris-Decartes, individua  nel principio di responsabilizzazione uno dei principali dispositivi di iscrizione soggettiva della dominazione. Esso si sostanzia nell'ingiunzione all'individuo a percepirsi, sempre e ovunque, responsabile non solo delle proprie azioni, ma anche degli eventi che gli capitano.  Di qui la sollecitazione a mobilitare le  risorse interiori per agire in modo efficace, per affrontare e risolvere da solo qualsiasi problema (dalla violenza, alla povertà, alla disoccupazione). In caso di fallimento, il soggetto, incitato ad assumersi i rischi della propria condizione, viene colpevolizzato, processo che consente alla società di sottrarsi a qualsiasi tipo di responsabilità nei confronti dei suoi componenti più fragili e che permette, al contempo, agli appartenenti ai ceti dominanti di legittimare sia la propria posizione che le diseguaglianze esistenti. [cfr. anche Caroline Guibet Lafaye, La domination sociale dans le contexte contemporain in Recherches sociologiques et anthropologiques  ] Se, infatti, lo status di un individuo viene attribuito interamente al merito, all'impegno, alla forza interiore, è evidente come la ripartizione disuguale della ricchezza, delle risorse, dei mezzi di produzione finisca per apparire equa.
Quanto alla violenza maschile sulle donne, se si ritiene di poterla sconfiggere proponendo modelli  femminili che incarnano i "valori" della potenza e del successo, ciò significa  non solo che si ignora la dinamica del fenomeno, la composizione sociale e il carattere delle vittime, fra le quali si annoverano anche brillanti e determinate professioniste, ma, soprattutto, che, consapevolmente o meno, si imputa a quelle fra loro che non sono in condizioni di poterne uscire rapidamente  la responsabilità di subirla. Si profila così il rischio di innescare un processo di colpevolizzazione e di stigmatizzazione delle vittime  disprezzate in quanto reputate fragili, impotenti, passive, in una parola, perdenti, mentre il ruolo dei maltrattanti viene occultato.
Un processo già in atto, anzi, dominante, come attesta il fatto che il 65,9% degli oltre  1300 studenti e studentesse delle scuole secondarie di secondo grado cui è stato somministrato  di recente un questionario sulla violenza di genere condivida l'affermazione secondo cui " se una donna viene maltrattata continuamente la colpa è sua perché continua a vivere con quest’uomo".
Le femministe non dovrebbero contrastare queste radicate convinzioni? E pensano di farlo contrapponendo le donne vincenti e di successo a quelle deboli e perdenti?
Ad essere rimossi sono, ad ogni modo, i rapporti sociali di potere, di dominio che si stabiliscono fra  i sessi, così come fra le classi.
Il testo di Naomi Wolf si presta ad ulteriori, rapide considerazioni.
Nessuna pensatrice femminista, che io sappia, interpreta la violenza come un tratto psicologico costitutivo della natura maschile, ma la considera piuttosto come una manifestazione di relazioni imperniate sull'oppressione e sulla dominazione.  Non mi soffermo, però, su questo punto già trattato in modo acuto e pertinente da altri, in particolare da Luisa Betti , da Massimo Lizzi   e dal Ricciocorno
Contrariamente a quanto ritiene Wolf, poi, affrontare il tema della violenza e rappresentarla non contribuisce a riprodurla, ma, al contrario,  a  rivelarla e a denunciarla,  facendola affiorare dagli imperscrutabili recessi della vita privata, per  poterla efficacemente combattere.  O si pensa forse di sconfiggerla occultandola e rimuovendola dal discorso pubblico?
Non si comprende, infine, perché il successo, il conseguimento di uno status sociale elevato, l'arricchimento, l'accesso al potere debbano rappresentare aspirazioni e valori condivisi da tutte le donne.  Perché dovrebbe essere considerato un bene concorrere al funzionamento del modo di produzione capitalista e alla riproduzione dei rapporti di dominio, di oppressione e di sfruttamento che lo caratterizzano?
 
La forza delle oppresse
Non vorrei che dalla lettura dell' articolo si deducesse la mia contrarietà ad evocare la "forza" del femminismo. Al contrario! La ritengo fondamentale, ma la interpreto come il potere che scaturisce dalla consapevolezza della propria condizione di oppresse e dalla volontà di opporvisi e di lottare per la liberazione individuale e collettiva delle donne.
Vorrei pertanto concludere il post con le splendide parole di Christine Delphy, la fondatrice del femminismo materialista:
 
"...Molte donne tengono sulla propria oppressione un discorso teorico. Ma la lotta politica, se non è alimentata dall'esperienza vissuta, quasi carnale, della realtà dell'oppressione, diventa una battaglia filantropica. E quando le donne diventano le filantrope di se stesse e non ricordano più, o vogliono dimenticare, che sono loro le umiliate e offese di cui parlano, perdono la loro forza. Difendere, ritrovare le sorgenti di questa forza è un'altra delle sfide del nuovo secolo per il movimento femminista. E per tutti i movimenti che lottano contro l'oppressione."

4 commenti:

  1. non è certo una aspirazione di tutte le donne l'arricchimento ma è un'aspirazione che può esistere negli uomini come nelle donne, e concordo col post sulla rappresentazione della violenza ma raccontare donne forti e potenti (che esistono) non significa condannare le persone meno forti

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  2. D'accordo, Paolo. La questione diventa però problematica nel momento in cui si gioca sulla contrapposizione fra donne deboli e donne forti e ci si avvale della descrizione di queste ultime per occultare l'esistenza della violenza maschile o per attribuire alle vittime dei maltrattamenti la responsabilità di subirli.

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    1. certamente. In generale il messaggio di responsabilizzarsi è positivo ma nessuno è responsabile di eventuali maltrattamenti che subisce specie in famiglia

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    2. responsabilizzarsi inteso anche come non piangersi addosso e vale per uomini e donne

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