giovedì 31 luglio 2014

Chi sono le donne che affermano di non aver bisogno del femminismo?




Nei giorni scorsi è stata pubblicata dai quotidiani "Repubblica" e il "Corriere della Sera" una galleria fotografica di ragazze e donne che sostengono di non aver bisogno del femminismo.
Etre féministe aujourd'hui ? Représentations associées aux féministes et ambiguïtés del'étiquette féministe   un'assai stimolante tesi, redatta nel 2010, alla conclusione di un master in studi di genere,  da Zoé Rüesch, si sforza di individuare ed enucleare i motivi che inducono molte donne a percepire il termine "femminista"  come stigmatizzante e a respingere un movimento di cui pure  mostrano di aver recepito, almeno in minima parte, i valori.
Le immagini che molte donne associano  al femminismo sono negative a causa, in primo luogo, dell'assimilazione  della retorica antifemminista che concorre a minarne le rivendicazioni, a stigmatizzare i comportamenti associati al movimento e a  screditare qualsiasi presa di posizione  favorevole all'uguaglianza di diritti e di condizione economica, sociale, giuridica, culturale e simbolica di uomini e donne.
L'irruzione sulla scena pubblica e la visibilità del femminismo hanno sempre prodotto un contrattacco più o meno forte, ossia una reazione di demonizzazione del movimento fondata sul ricorso ad una serie di concetti enunciati da Christine Bard in Un siècle d’antiféminisme e mutuati dal libro Retoriche dell'intransigenza di Albert O. Hirschman, che analizza i discorsi reazionari, i quali  ricorrono abbondantemente alle tesi della perversità, della futilità e della messa a repentaglio.
Applicata all'antifemminismo, la prima  teoria presuppone  che la liberazione delle donne promossa dal femminismo sia destinata a convertirsi  nell'assoggettamento degli uomini, ottenuta attraverso lo scatenamento della "guerra fra i sessi". Sarebbe la misandria a muovere le femministe, interessate non tanto a stabilire l'uguaglianza di genere, ma ad instaurare il dominio   delle donne sugli uomini.
La tesi della futilità insiste invece sull'immutabilità delle strutture sociali. Secondo tale prospettiva, rientrerebbe nell'ordine naturale delle cose l'assegnazione di funzioni e ruoli diversi agli individui di ciascun sesso e la loro collocazione in una posizione differente, sicché la  battaglia femminista volta a modificare  l'assetto sociale e i rapporti di genere si rivelerebbe essere  un'inutile perdita di tempo.
La teoria della messa a repentaglio, infine, sottolinea il costo simbolico elevato che i mutamenti indotti dal femminismo potrebbero comportare. Gli antifemministi invitano anche ad indirizzare la lotta verso altre cause ritenute molto più rilevanti.
Francine Descarries,  nel saggio L’antiféminisme ordinaire,  descrive, a sua volta, tre procedure retoriche frequentemente adottate dai maschilisti: la deformazione, le semplificazioni arbitrarie e il vittimismo. La prima consiste nella disinformazione che produce l'illusione nostalgica dei bei tempi andati, nei quali la mente delle "vere donne" non era obnubilata dall'ideale dell'uguaglianza di genere. Le discriminazioni sono presentate come casi individuali, conseguenti alla libera scelta di ciascuno, un'interpretazione che rientra anche nella categoria delle semplificazioni arbitrarie che disconoscono il ruolo condizionante delle strutture sociali.  Un' altra distorsione è rappresentata dall'affermazione che l'uguaglianza tra uomini e donne sia ormai  realizzata, sicché le rivendicazioni femministe vengono reinterpretate come azioni volte, in realtà, ad instaurare  la dominazione femminile. Il vittimismo, infine, consta nella raffigurazione degli uomini come vittime dei mutamenti generati dal femminismo che ne avrebbe prodotto la  femminilizzazione o, avrebbe, quanto meno, innescato una devastante crisi della maschilità.  
Un'altra convinzione antifemminista, osserva Zoé Rüesch, sulla scia di Rosende, Perrin, Roux e Gillioz, autrici dell'articolo Sursaut antiféministe dans les salons parisiens (Rigurgito antifemminista nei salotti parigini), è costituita dalla critica al cosiddetto "femminismo vittimista", che descriverebbe - si sostiene- tutte le donne come vittime e tutti gli uomini come carnefici. Tale valutazione  assume, in realtà, la connotazione di un'evidente semplificazione arbitraria e caricaturale che concorre a sminuire la gravità della violenza maschile sulle donne. Si tratta della posizione notoriamente assunta da Marcela Iacub, Hervé Le Bras ed Elisabeth Badinter, che, in Francia, sono annoverati fra gli antifemministi.
A rafforzare queste convinzioni contribuisce la letteratura "psicologica" popolare, il cui modello è rappresentato dal libro Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere di John Gray, che si prefigge, teoricamente, di offrire un sostegno alle coppie in crisi, ma che, in realtà, si rivolge esclusivamente alle donne, sollecitate a rinunciare  a qualsiasi anelito di indipendenza e di emancipazione per consacrarsi alla missione di custodire e preservare l'armonia dei rapporti affettivi. La valorizzazione delle competenze relazionali delle donne, in queste opere, svolge la precipua funzione di convogliare le loro aspirazioni e i loro desideri di realizzazione nella sfera domestica. Le femministe, in questa prospettiva, sarebbero responsabili della disgregazione della coppia e della famiglia e del perseguimento di interessi tanto egoisti quanto nefasti per il mantenimento del benessere collettivo.
Se queste sono, a grandi linee, le credenze propagate dall'antifemminismo, occorre chiedersi perché esse siano così frequentemente interiorizzate dalle donne e, prima ancora, perché queste ultime dichiarino spesso la propria estraneità al femminismo.
La prima ragione va individuata nel fatto che il neoliberismo valorizza il mito dell'unicità, della singolarità dell'individuo  pienamente autonomo, concorrendo, così, a occultare il legame sociale, l'interdipendenza di soggetti accomunati da interessi, valori, caratteri. L'affermazione di questa ideologia  rappresenta un ostacolo alla costituzione e al consolidamento dei movimenti, che sono, appunto, raggruppamenti di persone che condividono esperienze e condizioni di vita e perseguono i medesimi obiettivi. L'individualismo è naturalmente in contrasto con l'espressione di rivendicazioni collettive.
Proclamarsi femministe oggi significa non solo voler sovvertire il sistema patriarcale, ma anche rimettere in discussione alcuni dei valori che strutturano la società neoliberista: l'autonomia, intesa come totale indipendenza dagli altri,  l'individualismo e l'attribuzione ai singoli della responsabilità delle ingiustizie che subiscono,  quasi che le persone non fossero inserite in un fitto tessuto di rapporti e le loro opzioni di vita non fossero condizionate e limitate dal contesto, dalle strutture sociali, dal modo di produzione, dalle norme culturali vigenti.
 
Dichiararsi femministe, osserva amaramente l'autrice della tesi, sembra assolutamente insensato in un contesto sociale nel quale le difficoltà e le diseguaglianze sono presentate come il prodotto di "scelte" o il risultato di percezioni individuali e in cui gli ostacoli e i limiti sembrano sconnessi dai processi collettivi e svincolati da concetti quali il dominio maschile o la società patriarcale.
 
Un'altra ragione della scarsa adesione delle donne al movimento femminista è da rintracciare nella diffusione del post-femminismo che, presupponendo ormai realizzata la parità di diritti e l'uguaglianza di condizioni fra uomini e donne, prospetta come reale la possibilità di scegliere  il modello di vita più consono alle proprie esigenze  fra un'ampia gamma di opzioni  supposte accessibili a tutte alle medesime condizioni. Questa concezione comporta quindi la negazione dell'esistenza di qualsiasi forma di condizionamento sociale, depoliticizza le scelte individuali e, soprattutto, le presenta come la fonte di eventuali diseguaglianze che sarebbero il prodotto di decisioni assunte liberamente dalle singole donne. L'ideologia dell'ormai avvenuto compimento dell'uguaglianza di genere e l'attribuzione delle discriminazioni alla responsabilità individuale impedisce di lottare per sopprimere il sistema patriarcale e la divisione sessuale del lavoro, giacché ne occulta l'esistenza.
All'illusione  di disporre di una gamma infinita di opzioni tra cui scegliere corrisponde l'ingiunzione sociale a conformarsi alla norma della "perfetta femminilità", concepita come incompatibile con i valori associati alle femministe.
Gli ideali di autonomia e di autorealizzazione non si rivelano incompatibili con l'eteronormatività, che induce le donne ad assumere un aspetto e un comportamento fortemente sessualizzato e genderizzato per  apparire seducenti e  rafforza il mito della complementarietà dei sessi, a ciascuno dei quali vengono attribuiti determinati ruoli e caratteri.  Se l'inserimento in campi tradizionalmente concepiti come maschili risulta socialmente, almeno in parte, accettabile, è tuttavia necessario, per non turbare eccessivamente l'ordine sessuale, che ciò si abbini alla desiderabilità, alla capacità di sedurre. Ora, si suppone che la femminista non aspiri ad accendere il desiderio eterosessuale e respinga l'eteronormatività. Nell'immaginario collettivo, ella incarna l'ideale opposto a quello della donna seducente: non si trucca, non si depila, non indossa gonne e abiti appariscenti e scollati, ma solo pantaloni, non calza scarpe con i tacchi alti, ha i capelli corti.  Inoltre, sempre secondo topoi ampiamente diffusi, non possiede la tenerezza, la dolcezza, l'oblatività, la discrezione, la bellezza, la fragilità, l'emotività, la capacità di ascolto generalmente attribuite e imposte alle donne.
Gli stereotipi associati alle femministe fanno, poi, riferimento all'identità sessuale, al grado di integrazione sociale e al carattere.
Per il fatto di riconoscere la natura socialmente e culturalmente costruita del genere e, soprattutto,  di rimettere in discussione i ruoli attribuiti a ciascun sesso, le femministe   vengono considerate devianti, una valutazione estesa, conseguentemente, al loro orientamento sessuale. Lesbiche (termine al quale viene, in base ad un radicato atteggiamento omofobico, attribuita una connotazione negativa)  o misandriche, sessualmente inattive o, al contrario, iperattive, in ogni caso "degeneri": così appaiono nell'immaginario collettivo.
Esse sono raffigurate, poi, come affette da solitudine e votate alla marginalità sociale. Si ritiene che una donna sia completa solo se  ha intrecciato una solida relazione sentimentale con un uomo e, poiché le rappresentazioni sociali dei generi sono rigidamente dicotomiche, per essere completa una donna deve essere il complemento dell'uomo. Dal momento che contesta questo ruolo,  la femminista viene percepita come misandrica e deviante.
La solitudine è riferita anche alla presunta assenza di figli, connessa al fatto che le femministe  hanno lottato per ottenere  che la sessualità fosse disgiunta dalla riproduzione e per affermare l'idea della maternità come scelta, piuttosto che come obbligo sociale.
Esse vengono poi descritte come estremiste, "nazifemministe", convinte della superiorità delle donne. Secondo tale concezione, poiché l'uguaglianza di genere è già stata realizzata, la loro autentica, benché occulta, aspirazione  sarebbe in realtà quella di assoggettare gli uomini. Da qui l'accusa di essere misandriche e violente.
Viene loro imputato un atteggiamento estremistico anche perché, per molti, non sono tanto le discriminazioni a costituire un problema, quanto piuttosto la loro enunciazione e denuncia da parte delle femministe. E' come se, pur ammettendo la persistenza di certe diseguaglianze, queste fossero concepite come riconducibili a casi individuali e come se la loro contestazione pubblica contribuisse ad infrangere l'armonia che dovrebbe regnare fra i sessi. Per evitare di destabilizzare i rapporti con gli uomini,  le donne vengono sollecitate ad assumere un atteggiamento conciliante, di rinuncia alle proprie rivendicazioni, anziché adottare un comportamento conflittuale.
La sezione più interessante della tesi di Zoé Rüesch è quella empirica, imperniata sulle interviste a otto ragazze francesi e svizzere, studentesse universitarie o laureate, di età compresa tra i 22 e i 30 anni che, pur condividendo alcune idee femministe, rifiutano  di essere considerate tali.
Tutte riconoscono la sussistenza delle asimmetrie di genere che si sostanzierebbero nelle differenze salariali e contrattuali fra lavoratori e lavoratrici,  nello squilibrio esistente nella sfera della rappresentanza politica, più raramente nella disuguale ripartizione del lavoro domestico e di cura. La violenza maschile sulle donne e lo stupro non sono invece interpretate come questioni sociali, ma come effetti del temperamento aggressivo o della follia di alcuni uomini. In altri termini, non viene riconosciuta la natura strutturale della violenza, come "manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione" (Convenzione di Istanbul).
L'ideale egalitario delle intervistate è notevolmente temperato dall'enfatizzazione, tipicamente neoliberista, della responsabilità individuale e della libertà di scelta, che ostacola la percezione del carattere sociale delle diseguaglianze. Si ritiene che ciascun individuo possa decidere autonomamente il proprio destino, incluso quello di essere schiavo od oppresso e ciò è ritenuto  più importante della realizzazione dell'uguaglianza di genere. In tal modo, le strutture sociali e le discriminazioni  da esse generate non vengono rimesse in discussione.
La stessa segregazione orizzontale e verticale del lavoro è interpretata come conseguenza dell'applicazione del principio meritocratico e, dunque, come responsabilità diretta delle donne. Nel sistema produttivo, secondo tale prospettiva,  le posizioni apicali, le mansioni più gratificanti e le remunerazioni più elevate vengono riservate ai dipendenti più competenti o più produttivi e disponibili a svolgere ore supplementari di lavoro e le donne, evidentemente, non  rientrano in questa categoria: un discorso che si può applicare anche alla rappresentanza politica. Si tratta di un discorso che non prende minimamente in considerazione la realtà e le ragioni che determinano la divisione sessuale del lavoro e  che trascura  l'esistenza di rapporti di forza fra uomini e donne.  Ritenere queste ultime responsabili degli ostacoli che si frappongono alla loro carriera appare meno doloroso di quanto lo sia rappresentarsi il mondo come un ambiente ostile che genera e rinforza le discriminazioni, poiché concepire un problema come individuale, anche se coinvolge molte persone, anziché sociale, offre  ai soggetti l'illusione che sia sufficiente modificare il proprio comportamento per migliorare la propria situazione. Trasformare radicalmente l'ordine sociale, sopprimere il sistema patriarcale appare molto più difficile, se non impossibile.  In tal modo, però, viene legittimata l'esistenza delle diseguaglianze.
Le intervistate assumono un atteggiamento individualista, percepiscono le difficoltà come personali e particolari e ciò rende difficile la loro identificazione con le femministe che evocano, al contrario, l'idea di una collettività che concepisce le diseguaglianze come espressione di rapporti di genere asimmetrici e, quindi, sa individuare le dimensioni comuni dei percorsi  soggettivi di vita.
L'illusione di disporre di una completa libertà di scelta, l'individualismo e la psicologizzazione costituiscono, dunque,  alcuni dei motivi che  impediscono alle intervistate di aderire al femminismo.  L'ultimo meccanismo da me citato consiste, secondo la definizione di Patrizia Romito (Un silenzio assordante), "nell'interpretare un problema in termini individualistici e psicologici piuttosto che politici, economici o sociali e nel rispondere di conseguenza in questi termini. E' un meccanismo sociale potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione e la potenziale ribellione. La psicologizzazione è quindi una tattica di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti".
Non solo.
Al mito dell'ormai avvenuto raggiungimento dell'uguaglianza di genere si affianca, paradossalmente in apparenza, la preoccupazione di naturalizzare le differenze fra i sessi. Le intervistate si sono mostrate sensibili alla possibile influenza esercitata dalla biologia sulle scelte di vita degli individui, sulle loro predisposizioni ed aspirazioni. Se esiste  un istinto materno, se le donne dispongono ontologicamente di maggiori competenze relazionali rispetto agli uomini, è naturale che consacrino più tempo di questi ultimi alle attività domestiche e di cura e che  si adattino più facilmente allo svolgimento di un lavoro part-time. Questo essenzialismo rende avulso alle intervistate il femminismo dell'uguaglianza, ma, paradossalmente in apparenza, anche quello della differenza, poiché  quest'ultima viene concepita come complementarietà armoniosa tra i sessi. Di conseguenza, la costituzione di collettivi di donne che elaborano proprie teorie, adottano determinate pratiche, formulano rivendicazioni autonome è percepita come una manifestazione di avversione agli uomini. Inoltre, la pratica e il linguaggio della contestazione, dell'opposizione, della lotta per conseguire un obiettivo sono ritenuti prettamente maschili, estranei all'essenza femminile. Le donne disporrebbero piuttosto di un'attitudine naturale a promuovere la conciliazione degli opposti, a tessere rapporti, a prendersi cura delle relazioni con gli uomini, a garantire il benessere di tutti i  componenti del proprio entourage. Sarebbero inclini ad esprimere tenerezza, non collera, combattività ed aggressività.
Una preoccupazione che assilla le ragazze intervistate è quella di preservare l'armonia della   loro coppia. Il loro compagno è descritto come un uomo meraviglioso, profondamente diverso dagli altri. Eppure la coppia, il matrimonio, la convivenza sono, secondo molte ricerche, condizioni propizie  al rafforzamento delle diseguaglianze  fra i sessi,  in quanto caratterizzati ad esempio da una disuguale ripartizione delle attività domestiche e di cura. Ma la coppia rappresenta, per le ragazze intervistate, il luogo del libero dispiegamento dell'oblatività e dell'abnegazione, "virtù" che comportano la   rinuncia all'applicazione della giustizia commutativa. Ora, la dedizione e il sacrificio di sé sono giustamente percepiti come molto distanti dalla posizione rivendicativa delle femministe. Evocare le discriminazioni, l'iniqua ripartizione delle incombenze domestiche e del lavoro di cura che si realizza nell'ambito della famiglia, protestare o rivendicare una differente suddivisione dell'attività di riproduzione significa attivare comportamenti che potrebbero infrangere l'ideale di pace e di armonia della coppia che sembra dominare  la mente delle intervistate. Una postura femminista comporterebbe per queste ragazze il rischio di disgregare il rapporto con l'uomo cui sono legate.
Quanto alla giustizia, se è socialmente accettata l'idea che uomini e donne debbano godere degli stessi diritti, è altrettanto vero che, dovendosi quotidianamente confrontare con discriminazioni diffuse in ogni ambito, le donne tendono ad adattarsi a questa realtà, per renderla sopportabile.  Alcune delle intervistate ritengono inoltre che l'uguaglianza di genere costituisca un'irrealizzabile utopia e che pertanto la battaglia delle femministe sia vana.
 
Non esiste alcuna società che non sia organizzata secondo un principio gerarchico. E' sempre stato così, dappertutto. Vi è necessariamente qualcuno che prende le decisioni e qualcun altro che le esegue. E' così nel governo degli Stati, nella famiglia, forse nella coppia, in una fratria. E' normale che sia così. (Anne-Marie).
 
Se l'ordine sociale è ritenuto immutabile, la lotta femminista risulta necessariamente priva di senso. 
A questa forma di conservatorismo si associa il confronto con le altre donne, processo che conduce a banalizzare le ingiustizie, dal momento che tutte le subiscono, forse anche in forma più grave. La normalizzazione dell'iniquità soffoca, a sua volta, lo spirito di rivolta.
La maggioranza delle ragazze intervistate è sensibile alle discriminazioni che si manifestano nella sfera pubblica e si dichiara in questo caso favorevole alle posizioni delle femministe. Allorché, tuttavia,  si fa riferimento  ai rapporti personali, le ingiustizie non vengono più percepite come tali, ma vengono piuttosto reinterpretate come manifestazioni delle naturali differenze fra i sessi, come espressioni delle qualità, delle attitudini e delle competenze proprie di ciascun genere. Le femministe sono allora descritte come donne estremiste e frustrate, in quanto inclini a condannare "ingiustizie" che le altre sono in grado di tollerare senza troppo soffrire. Sarebbero, in altre parole, delle vittimiste. Protestare significa riconoscersi vittime dell'ingiustizia e lottare assieme alle altre per eliminarla: ma è proprio questo l'atto che le intervistate si rifiutano di compiere. Le femministe sono accusate di adottare un paradigma vittimario che presenta le donne come vulnerabili, indifese, oppresse, assoggettate al dominio maschile. Questa accusa provoca una dislocazione della responsabilità: le violenze maschili sulle donne vengono occultate  e alle femministe che le denunciano viene imputata la colpa di dipingere  tutti gli uomini  come carnefici e tutte le donne come vittime.
Dalle interviste svolte, osserva Zoé Rüesch, affiora soprattutto un'inquietudine profonda  di fronte all'ignoto, la paura dell' omologazione dei sessi e  dell'indifferenziazione dei ruoli, il timore nei confronti di rivendicazioni femministe che sono rivolte alla società, ma che sollecitano anche a interrogarsi sulla natura delle relazioni intime fra uomini e donne. Al di là dell'assimilazione delle rappresentazioni antifemministe, è soprattutto la preoccupazione di dover ripensare l'organizzazione della propria famiglia o le modalità di funzionamento del rapporto di coppia a intimorire le intervistate e a renderle diffidenti nei confronti del femminismo.
 
Proprio perché

- conclude amaramente Zoé Rüesch - il termine "femminista" rinvia, nel pensiero delle nostre intervistate, alla rimessa in discussione delle strutture sociali e di un sistema di pensiero che assegna loro una posizione, certo, subalterna, ma, nondimeno, famigliare, esse non vogliono essere assimilate alle femministe.

 

giovedì 24 luglio 2014

Case occupate femministe


"Vorrei l'altrove e lo coltivo dentro di me, lo alimento e lo sento. E perché non rimanga solo un sogno, l'antico immaginario di cui si sono nutrite le donne nella depressione della non-esistenza, vorrei radicarlo nel calore dei nostri rapporti, nella strutturata materialità che i nostri desideri sanno e sapranno costruire". Così scrive Daniela Pellegrini, la fondatrice del neofemminismo italiano (quello degli anni Settanta), in Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare. E della materialità  degli intensi rapporti fra donne radicata negli spazi occupati berlinesi parla questo articolo, da me tradotto, di Édith Gaillard, autrice anche di una lunga, interessante e approfondita tesi di dottorato sull'argomento, il cui contenuto prima o poi vi esporrò. Sono consapevole del carattere inattuale e utopistico dell'articolo di Gaillard, calato nel contesto italiano, caratterizzato, da un lato, dai frequenti sgomberi di case e spazi occupati che avvengono anche in città amministrate  dalla "sinistra", dall'altro - fatto ancor più grave - dalla vigenza del decreto legge 28 marzo 2014  n. 47, convertito in legge in maggio (il cosiddetto Piano casa o decreto Lupi), il cui art.5  recita " Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo  non  può chiedere la residenza  ne'  l'allacciamento  a  pubblici  servizi  in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi  in  violazione  di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge". Si tratta di una disposizione di estrema gravità, perché, oltre a privare gli occupanti di case dell' elettricità, del gas,  dell'acqua e  del telefono, li defrauda   dei diritti costituzionalmente garantiti. Senza residenza, infatti, non  è possibile disporre della carta d'identità, lavorare,  mandare i figli a scuola, fruire delle prestazioni del servizio sanitario nazionale e del welfare e percepire l'assegno pensionistico.
In queste condizioni e considerata la precarietà che connota le nostre esistenze, coltivare l'altrove è davvero difficile.
Non cesserò, però, di illustrarvi pratiche femministe alternative, antagoniste diffuse in altri Stati, pratiche che materializzano l'utopia ed erodono il capitalismo dall'interno.
 

Dallo squat all'habitat
All'inizio degli anni Ottanta, si potevano già leggere sulle facciate di alcune case occupate di Berlino Ovest slogan come: "Il futuro sarà donna". "Le donne vivono, amano, lavorano".  "Non sempre si deve essere gentili. Preparatevi alla rabbia delle donne". All'epoca Berlino Ovest conosceva un forte movimento squat, con l'occupazione di più di 150 stabili nel solo quartiere di Kreuzberg. Fu in questo contesto che militanti femministe, aderenti al movimento alternativo, autonomo e libertario tedesco, fondarono spazi abitativi autonomi. Se alcune di loro si opponevano radicalmente, attraverso le occupazioni, all'ordine sociale vigente in Germania, la maggioranza era costituita da donne  definite "instandbesetzer-innen", ossia "occupanti- restauratrici", in quanto cercavano di ristrutturare gli immobili  dismessi.
Queste occupazioni avvenivano in un contesto nel quale la vetustà del patrimonio immobiliare di Berlino Ovest e l'aumento della domanda avevano determinato l'implementazione di due politiche particolari: una di sovvenzione alle ristrutturazioni e l'altra volta alla demolizione e alla ricostruzione del patrimonio immobiliare della città. Queste due politiche venivano utilizzate congiuntamente come strategie speculative da alcuni proprietari che riscuotevano i finanziamenti per la ristrutturazione dei beni immobili, che lasciavano tuttavia deteriorare per ottenere il diritto di abbatterli e di costruirne di nuovi.
Questa deriva speculativa fu oggetto di contestazioni da parte degli abitanti dei quartieri interessati che si consideravano doppiamente colpiti: come contribuenti, chiamati a finanziare la politica di sovvenzioni alle ristrutturazioni degli immobili e come inquilini danneggiati dall'incremento degli affitti.
Gli squatters, perciò, si organizzarono per occupare immobili dismessi ed ottenere la legittimazione giuridica a ristrutturarli. Alcun* squatters si videro riconoscere, seppure in modo precario, la legittimità dell'occupazione.
 
Una prospettiva femminista sull'habitat
Le militanti impegnate nel movimento di occupazione sostengono che le donne siano le più direttamente coinvolte dalla questione abitativa e le prime interessate al rinnovo urbano. Sono le donne ad occuparsi della casa e a frequentare il quartiere a causa del ruolo sociale  che ricoprono e delle funzioni  che vengono loro attribuite. Sono loro a soffrire  della disgregazione dei rapporti di vicinato determinata dalle logiche speculative, mentre le politiche che la producono sono implementate dagli uomini che detengono il potere. L'occupazione di edifici si trasforma, per loro, in  una strategia di resistenza. Si tratta di contrastare l'espulsione dal centro della città, di formare comuni, di usare  gli stabili vuoti per finalità politiche e di ristrutturarli per creare spazi che possano percepire come propri.
Nel 1981 l'edificio al n.5 della Liegnitzerstrasse apparteneva ad un gruppo privato che eccelleva in ciò che gli squatters denunciavano: la speculazione edilizia. L'immobile era abbandonato da quasi cinque anni, ma il gruppo proprietario si arricchiva riscuotendo le sovvenzioni destinate a chi ristruttura un appartamento. Una volta occupato, l'edificio venne chiamato "casa delle streghe". Vi dimoravano 12 "donne e lesbiche" (secondo la loro stessa definizione) del movimento autonomo berlinese. Anche l'edificio situato al n.58 della Naunynstrasse era di proprietà di una società privata che, attraverso la riclassificazione fra le abitazioni di lusso, voleva accrescerne il valore di mercato. Una dozzina di donne si oppose a questo progetto di "risanamento" e occupò l'edificio.
Questa prima ondata di occupazioni venne bloccata nell'autunno del 1984, periodo di avvio di una politica di sgomberi senza preventiva negoziazione con le autorità pubbliche. Tuttavia, fu nel frattempo intrapreso anche un processo di "legalizzazione" delle occupazioni. Così, cinque occupazioni effettuate da donne furono regolarizzate, ricorrendo all'affitto o all'acquisto degli immobili. Gli edifici in questione sono ancor oggi gestiti da donne.
Nel 1989, la caduta del Muro di Berlino impresse un nuovo impulso al movimento delle occupazioni, soprattutto ad Est. Nell'aprile 1990, un centinaio di autonomi e di libertari occupò dodici stabili nella Mainzerstrasse nel quartiere di Friedrichshain. Uno di questi edifici fu riservato a "donne e lesbiche". Vi dimoravano 15 persone. Avevano un bar, uno spazio di socialità aperto a tutti e un garage. Se questa occupazione si concluse con lo sgombero, in seguito furono sperimentate numerose altre occupazioni femministe. Poteva trattarsi di un intero condominio o di un solo piano o di una parte dell'edificio. Come negli anni Ottanta, numerose occupazioni furono rese permanenti attraverso l'affitto.
 
Il Liebig 34, uno squat femminista regolarizzato
Il Liebig 34 fa parte di questa geografia contestataria. Occupato nel 1991, poi  regolarizzato, l'edificio è abitato da sole donne dal 1996. Questo stabile femminista nasce, secondo le abitanti, dall'attenta valutazione delle "oppressioni che subiscono le donne, ma anche le altre minoranze soggette alle discriminazioni e ai pregiudizi  generati dal sistema eteronormativo". Se lo squat esiste da una ventina d'anni, le sue attuali abitanti non sono  quelle che hanno dato origine all'occupazione, alla regolarizzazione e al separatismo deciso qualche anno dopo da un gruppo di militanti femministe.  L'edificio ospita ora, distribuite su quattro piani, 35 persone di età compresa fra i 20 e i 30 anni, provenienti da ogni parte del mondo.
Al pianterreno si trova una libreria alternativa e un bar di proprietà del collettivo. Si tratta di due spazi non commerciali e autogestiti, concepiti in opposizione all'alienazione polimorfa e onnipresente e al processo di normalizzazione del sistema capitalista. Un atrio conduce a un cortile interno nel quale le abitanti riparano le biciclette, tagliano la legna per alimentare la stufa d'inverno, fanno bricolage e praticano diverse attività artistiche. Questo cortile è anche lo spazio di manifestazioni aperte agli abitanti del quartiere: vi si organizzano mercatini, concerti, cene sociali.
L'organizzazione collettiva dello squat si basa sui principi dell'orizzontalità, della solidarietà e dell'autonomia.
L'orizzontalità, in particolare, è fondata sull'apprestamento  degli strumenti necessari a consentire a tutte di esprimersi nelle assemblee. L'idea è quella di sviluppare la capacità di ascolto, di favorire il silenzio propizio alla presa di parola delle donne timide, di accettare la lentezza nell'assunzione delle decisioni.  Si esercita la vigilanza collettiva affinché ciascuna possa esprimersi, se lo desidera.
La solidarietà si costruisce attraverso la condivisione delle risorse e l'apertura della casa alle persone in difficoltà. Al primo piano, una stanza collettiva è consacrata all'ospitalità gratuita di queste persone. Dopo quindici giorni di permanenza, è prevista la partecipazione alle spese da parte delle ospiti che se lo possono permettere. Questa flessibilità vale anche per le residenti che devono pagare l'affitto. Quelle, fra loro, che hanno difficoltà economiche possono segnalarle durante l'assemblea settimanale ed essere esentate dal versamento  del canone d'affitto, che verrà esborsato dalle compagne.
L'autonomia consiste principalmente nel fare da sé. La casa occupata diventa il luogo di scambio di saperi e di saper fare. Viene infranto il complesso di norme implicite ed esplicite che attribuiscono lavori, valori, responsabilità e obblighi distinti ai generi:
"All'improvviso, ti trovi in un posto in cui non esistono differenze di genere. Non ho mai eseguito prima lavori di costruzione. Ho avuto la possibilità di farli e mi sono piaciuti: costruire cose, aggiustarle, ripararle".
Il separatismo permette alle residenti di rimettere in discussione i ruoli stereotipati attribuiti alle donne. Lo squat diventa "lo strumento" che permette "di essere se stesse senza essere il proprio genere. Perché, non essendoci uomini, i ruoli sono totalmente distrutti. Quindi, questo significa che puoi essere te stessa senza dover lottare  quotidianamente per non dover essere la "donna"   imposta dalle norme culturali e sociali".
Un certo numero di residenti si sono stabilite nella casa occupata senza aver precedenti esperienze di impegno collettivo e/o militante. Così, la dimensione femminista dello spazio abitato non costituisce necessariamente la prima ragione dell'insediamento nella casa. Per alcune, abitare in uno spazio dove non ci sono uomini è inizialmente un tipo di esperienza, che può diventare durevole. La casa diventa allora uno spazio di socializzazione femminista. Le residenti mutano la propria visione della società, costruiscono un discorso sui rapporti di dominio. La sociabilità non mista e i numerosi scambi fra  le residenti contribuiscono alla formazione di un discorso contestatario che afferma la volontà di vivere intensamente, la rimessa in discussione del lavoro, la volontà di consumare in modo diverso o, ancora, di sfuggire alla massificazione e all'omologazione. Le residenti passano quindi dallo statuto di abitanti a quello di militanti.
 
 
 

martedì 15 luglio 2014

L'incontro alla libreria delle donne di Milano: il corpo rimosso e le richieste di giustizia


 
Ho partecipato, venerdì 11 luglio, all'incontro dal titolo "La violenza fuori e dentro di noi",  organizzato dalla Libreria delle donne di Milano e dall'associazione Maschile Plurale. Timidezza ed ansia (fortissima) mi hanno impedito di intervenire.  Sono afflitta e mortificata. Mi sento invasa dai sensi di colpa, perché sarebbe stato importante per me, in quest'occasione, prendere posizione, rendere concreta, materiale la mia presenza con parole che fossero non solo espressione di un pensiero  che si iscrivesse nella pratica femminista del "partire da sé", ma anche testimonianza della mia vicinanza alla persona che ha subito in questo periodo  una reiterata rivittimizzazione e manifestazione della mia solidarietà a tutte le vittime di violenza. Le parole possono avere un corpo, "abbracciare, toccare, materializzare l'incontro" scriveva Daniela  sul periodico femminista "Sottosopra" nel 1974.  Parole che non sono stata in grado di pronunciare. Tuttavia, se è vero che esistono parole incarnate, è altrettanto vero che il corpo e i gesti parlano, comunicano, esprimono sentimenti ed emozioni e del compimento di  un azione   mi ritengo soddisfatta:   essere stata presente.
Al corpo, ai gesti  e alle posture vorrei  riferirmi per esprimere il mio disappunto   nei confronti dell'atteggiamento assunto da Marco Deriu, efficacemente illustrato da Ricciocorno Schiattoso  in un post che invito a leggere con attenzione,  il mio sconcerto  per il rapido dileguarsi di  Ciccone, promotore dell'incontro.  Un comportamento irrispettoso e  in evidente contrasto con l'enfasi posta da Maschile Plurale sulla rilevanza dell'incontro in presenza. Un atteggiamento  inconciliabile peraltro con le posizioni teoriche espresse dal gruppo, imperniate sulla riscoperta  del corpo maschile rimosso e sulla rivalutazione dei gesti, dei sentimenti, delle emozioni, solitamente represse o sublimate dagli uomini e tradizionalmente considerate, nell'ordine simbolico patriarcale, come caratteri distintivi delle donne. Sicché il famoso incontro in presenza si è tradotto in "visibile" assenza: assenza di sguardi e di ascolto da parte di  alcuni esponenti di Maschile Plurale  e in evidente rimozione del corpo. Per una sorta di eterogenesi dei fini, si è prodotto, però,  paradossalmente, l'effetto contrario: quello di una sovraesposizione, di un'ipervisibilità  di corpi che si pretendevano eterei. Chi si comporta come se non ci fosse, infatti, si nota  molto più degli altri.
Il corpo rimosso è  riemerso enfatizzato e ingigantito, per restare al paradosso,  nel primo intervento di Marco Deriu, che, ricostruendo la genesi dell'emersione del caso che ha dato origine al dibattito, ha detto che "i primi messaggi apparsi su facebook parlavano della violenza in generale:  sembrava che qualcuno fosse stato picchiato" e ha proseguito il discorso  osservando che la difficoltà è  consistita nel fatto che si è trattato di violenza psicologica quindi non di un gesto, di un episodio di violenza fisica, ma di un processo.   Il discorso e, soprattutto, la frase " sembrava che qualcuno fosse stato picchiato"   mi pare esprima una sottovalutazione della gravità della violenza psicologica. Poiché questa lacera la mente, lasciando apparentemente intatto il corpo,  viene minimizzata o, per lo meno, percepita come meno drammatica della violenza fisica. Che poi, a dirla tutta,  - e chi l'ha vissuta lo sa - non è vero che la violenza psicologica non iscriva i suoi segni nella carne, giacché spesso produce  forme di somatizzazione  del dolore. Inoltre, uno stato perenne di ansia e di paura  plasma il corpo, ne modifica posture e atteggiamenti.
La gravità della violenza psicologica è stata, del resto, sottolineata da Marisa Guarneri del Centro Antiviolenza di Milano, oltre che da Katia Salvaderi che ne ha chiesto con veemenza ed indignazione la stigmatizzazione da parte di Maschile Plurale.
Il corpo, dunque, nel corso dell'incontro, è stato occultato e riscoperto a seconda delle circostanze e delle convenienze dagli esponenti  dell'associazione.
Nei testi scritti da Ciccone e Deriu compaiono spesso i termini "cura del vivere", "sensibilità" e "capacità di ascolto", virtù relazionali che, a mio parere,  non hanno saputo manifestare nel corso dell'incontro. I loro interventi mi sono parsi sordi alle critiche e alle  richieste  espresse con forza e determinazione da tutt* coloro che hanno partecipato con passione al dibattito e costantemente protesi, invece, alla discolpa. Dalle donne che subiscono violenza, ha, ad esempio, osservato Luisa Muraro, " viene una domanda di giustizia che voi non ascoltate. La vostra risposta è un’autodifesa ".
E' mancata una chiara assunzione di responsabilità, ben presente invece  nel bel discorso di Massimo Lizzi, che   ha riconosciuto  la sua integrazione  nel sistema patriarcale  ed ha sottolineato come tutti gli uomini traggano vantaggio dalla violenza sulle donne. E' lo stesso concetto espresso, da Patrizia Romito, psicologa sociale e femminista materialista in Un silenzio assordante:


Da questa analisi non consegue che tutti gli uomini sono violenti. Ne consegue invece che tutti gli uomini, anche coloro che non sono violenti, ricavano dalla violenza esercitata da alcuni: facilità di accesso a rapporti sessuali, servizi domestici gratuiti, accesso privilegiato a posizioni lavorative più elevate e meglio retribuite. (p.40)

Non è la mancanza di consapevolezza, il disconoscimento e la non frequentazione dell'ombra che recano in sé, infatti, a determinare il protrarsi della violenza dei maltrattanti. Lo sottolineava Ricciocorno  nel suo splendido e coinvolgente discorso.
I maltrattanti non sono affatto incapaci di gestire il conflitto e lo stress in modo pacifico, né agiscono in preda a raptus. Non sono inclini alla perdita dell'autocontrollo in situazioni di esasperazione. Al contrario! Quando praticano la violenza mantengono lucidità e consapevolezza delle azioni che compiono e delle parole che pronunciano, che ritengono moralmente accettabili. La negazione, la rimozione, la minimizzazione dei propri comportamenti, la giustificazione autoassolutoria, la dislocazione della colpa sulla vittima intervengono a posteriori come tattiche funzionali al mantenimento dell'integrità della propria immagine e alla prosecuzione della violenza, dalla quale il maltrattante ricava vantaggi  ai quali non intende rinunciare.
In Uomini che maltrattano le donne Lundy Bancroft osserva, ad esempio, che gli uomini violenti si attribuiscono uno status speciale che conferisce loro diritti esclusivi e privilegi che perpetuano la disuguaglianza sociale e domestica tra i sessi. Si ritengono in diritto di ricevere, senza contraccambiarle, costanti ed ininterrotte cure domestiche ed emotive, deferenza, appagamento sessuale e pretendono di essere esentati da qualsiasi responsabilità. Se le partner non sono sufficientemente solerti nel soddisfare i loro desideri o richiedono reciprocità nelle manifestazioni di affetto, collaborazione nello svolgimento delle mansioni domestiche e nella cura dei bambini e assunzione di responsabilità, i maltrattanti si ritengono autorizzati a ribadire, anche con l'uso della violenza, la diseguaglianza dei diritti dei membri della coppia.
Gli abusi garantiscono il mantenimento del potere e del controllo sulle partner e l'esercizio del dominio gratifica  i maltrattanti. Adottando comportamenti aggressivi, i violenti ottengono dal rapporto la soddisfazione completa dei propri desideri, senza compiere alcun sacrificio e, soprattutto, senza darsi la pena di appagare le esigenze delle compagne. Si garantiscono, senza offrire reciprocità, l'esaudimento dei propri bisogni affettivi, la presa in carico dei propri problemi da parte delle compagne, il godimento, rispetto a queste ultime, di una maggior quantità di tempo libero, assicurato dal rifiuto ad accettare un'equa ripartizione del lavoro domestico e di cura. Si pongono al centro dell'attenzione, acquistano la certezza che la propria carriera ed altri obiettivi personali saranno sempre considerati prioritari, ricevono l'approvazione di amici e parenti che condividono il loro "sistema di valori". Con l'esercizio della violenza, infine, gli uomini maltrattanti impongono alle partner norme che essi si esentano dal rispettare, come alzare la voce, adirarsi, formulare una critica ecc. "Se vogliamo che [i violenti] cambino - osserva Lundy Bancroft - dobbiamo chiedere loro di rinunciare al lusso dello sfruttamento".
Patrizia Romito, a sua volta, scrive:

La violenza è una strategia sistematica per mantenere le donne subordinate agli uomini.
Lungi dal consistere in comportamenti devianti o spiegabili con problemi psicologici del singolo uomo, la violenza maschile rappresenta uno strumento razionale, che per funzionare efficacemente, come di fatto funziona, necessita di un sistema organizzato di sostegno reciproco e di complicità ampie a livello sociale.

Non si può chiedere, quindi, di comprendere la sofferenza del maltrattante, soprattutto alla sua vittima, poiché è proprio l'eccesso di empatia, di immedesimazione nell'altro, ha osservato  giustamente Ricciocorno, a impedire alla donna di intraprendere il percorso di uscita dalla violenza.
Dal momento che gli unici discorsi maschili convincenti mi sono parsi quelli di due uomini che non  fanno parte di alcuna associazione antisessista: Massimo e Tommaso, mi chiedo se l'omosocialità, in qualsiasi forma si manifesti, non contribuisca in realtà a mantenere intatto  il sistema patriarcale,  quanto meno attraverso l'attivazione di solidarietà e di comportamenti di difesa corporativa degli associati, qualsiasi atteggiamento essi assumano. Mi chiedo inoltre quali mutamenti  nei rapporti tra uomini e donne riescano a produrre  le associazioni maschili antisessiste. Io non ne ho notati.
Nel corso dell'incontro sono state rivolte, soprattutto dalle donne, determinatissime e appassionatissime, ma anche da Massimo Lizzi e da Tommaso, numerose critiche e richieste agli esponenti di Maschile Plurale, che condivido e rilancio. Si è richiesta:
1) giustizia, verità, rispetto e riconoscimento degli errori commessi;
2) assunzione di responsabilità;
3) stigmatizzazione della violenza psicologica, non solo di quella fisica e sessuale;
4)  adozione di protocolli che non consentano a  sospetti maltrattanti di partecipare a conferenze o di svolgere attività  di formazione contro la violenza sulle donne a nome dell'associazione. Non si può impedire  ad alcuno, naturalmente, di presenziare a convegni e incontri, ma i sospetti violenti lo devono fare a proprio nome.
5) Da parte mia,  rinnovo l'appello a interrogarvi sui motivi che vi inducono a partecipare ad un'associazione antisessista.  A questa istanza affianco l'invito a chiedervi a cosa serva davvero la vostra organizzazione.



 




 
 


 
 





 

giovedì 10 luglio 2014

La "separazione della cucina dal matrimonio": ecco una grande riforma. Dal cucinino al Contropiano delle cucine alle cucine...del comune




Nel saggio Discours féministes et architecture/recherche urbaine (avec des exemples d'Allemagne), incluso  nel volume collettaneo  Femmes et villes (Donne e città),  a cura di Sylvette Denèfle, pubblicato nel 2004, Christine Bauhardt, docente di architettura all'Università tecnica di Berlino, osserva come il genere costituisca un fattore che struttura lo spazio. Le architette e le urbaniste femministe sono in grado di dimostrare come l'organizzazione dello spazio sia fondata sull'occultamento del lavoro delle donne  e  sulla scarsa considerazione di cui godono alcune classi di età (i giovani e gli anziani). Si consideri, infatti, l'inadeguato sviluppo, l'inefficienza e la carente manutenzione  della rete del trasporto urbano, i cui utenti appartengono generalmente alle categorie sopracitate.
Architetti ed arredatori non influenzati dal femminismo, secondo Christine Bauhardt, ostacolano, inoltre, lo svolgimento del lavoro domestico e lo celano allo sguardo, riducendo drasticamente le dimensioni della cucina.
In Germania, il lavoro domestico, anziché essere occultato o presupposto in modo implicito, è stato riconosciuto da architette e arredatrici femministe come elemento fondamentale di organizzazione dello spazio  ed è stato valorizzato attraverso la collocazione in posizione centrale, anche negli alloggi popolari, della cucina e contemporaneamente della stanza individuale: una per ciascun membro della famiglia. La prima, spaziosa e comoda, è concepita come il luogo ove si svolge una consistente frazione del lavoro della casalinga, ma anche come uno spazio di  convivialità, di incontro tra i membri della famiglia e di educazione dei figli.
Complementare alla cucina è la "stanza tutta per sé",  già rivendicata da Virginia Woolf, un'oasi di pace, di riposo e  di solitudine.
Non si tratta, osserva Christine Bauhardt, di confinare le donne in casa e di accollare loro tutto il lavoro domestico, quanto piuttosto di favorire la cooperazione  dei membri della famiglia allo svolgimento di questa attività  e, al contempo, offrire a ciascuno di loro uno spazio individuale di riposo e di loisir all'interno dell'abitazione.
In Italia, come rivela un bell'articolo del 2001 di Giovanna Cosenza: Il sofà e la cucina , nelle abitazioni degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso  erano molto diffusi cucinini e cucinotti: ambienti ridotti, minimali,  poco confortevoli e molto scomodi. La casa di mia nonna, costruita nel 1963, è stata progettata in base a questi criteri: il cucinino è separato da una porta a soffietto dalla sala da pranzo. L'organizzazione dello spazio pare effettivamente finalizzata  all'occultamento e alla svalutazione del lavoro domestico e, soprattutto, al suo affidamento a una sola persona: la donna, naturalmente. Nei cucinini, infatti, può circolare, con poco agio peraltro, una sola persona. Lo spazio consacrato alla convivialità e alla condivisione dei pasti che compaiono in tavola quasi  si fossero autoprodotti per magia è dislocato in una sala separata dal luogo della loro preparazione, del lavaggio dei piatti,  ecc.
L'invisibilità delle mansioni domestiche come attività che concorrono alla produzione della forza lavoro, estendendo e, al contempo, occultando, in quanto non remunerate, lo sfruttamento capitalistico all'interno delle case è denunciato   negli anni Settanta dalle esponenti di Lotta femminista.
Scriveva  nel 1972 Mariarosa Dalla Costa in Potere femminile e sovversione sociale (p.42):
 
A partire da Marx è stato chiaro che il capitale comanda e si sviluppa attraverso il salario. Il fondamento della società capitalistica è il lavoratore salariato e il di lui o di lei diretto sfruttamento. Non è stato altrettanto chiaro, né è stato mai assunto dalle organizzazioni del movimento operaio che proprio attraverso il salario viene organizzato lo sfruttamento del lavoratore non salariato. E che semmai il suo sfruttamento è stato tanto più efficace proprio in quanto nascosto, mistificato dalla mancanza di un salario. [...] Quindi il lavoro delle donne appariva una prestazione di servizi personali al di fuori del capitale.
 
Questo brano è riportato in esergo a Contropiano delle cucine, redatto nel 1975, in collaborazione con Nicole Fox, da Silvia Federici, una delle più prestigiose esponenti della sopracitata corrente femminista. Il saggio è incluso nell'importante raccolta Il punto zero della rivoluzione, pubblicata di recente da Ombre Corte, curata e tradotta da Anna Curcio. Il titolo prospetta la possibilità di contrastare il capitale  (elaborare un piano che si contrapponga al suo ) nelle case, in quanto il lavoro di produzione e di riproduzione della forza lavoro che vi si effettua è già inserito nel circuito della valorizzazione capitalista. Questo contropiano è concepito come lotta contro il lavoro domestico, il cui primo passo deve consistere nell'imporne allo Stato,  incarnazione del capitale collettivo, la remunerazione, in quanto il salario si è storicamente configurato come il principale terreno di scontro tra capitalisti e operai, che sfruttano questa leva per accrescere il proprio potere e ridurre  l'orario e il ritmo della produzione.
La rivendicazione di un salario è percepita, quindi, come una modalità di lotta contro le mansioni domestiche  in grado di proiettare le donne fuori dalle cucine e dalle camere da letto, rendendo manifesto, fra l'altro, il fatto che il personale è politico.
 
Le donne proletarie escono dalle cucine, fascisti, padroni per voi sarà la fine, recitava uno slogan dei cortei femministi degli anni Settanta [Paola Agosti, Una fotografa degli anni Settanta ricorda il movimento femminista, in AA.VV., Il gesto femminista, p.47]
 
Fine interprete del femminismo marxista degli anni Settanta, Anna Curcio scrive, a sua volta, in Un gesto scabroso, saggio inserito nel libro Il gesto femminista (p.94):
 
Svelato l'arcano della gratuità della riproduzione, le donne si affrettano a sottrarsi a quel regime e rifiutano il lavoro che il capitale comanda loro. [...] Nel rifiutare il lavoro di riproduzione, le donne interrompono lo spazio dell'accumulazione fondato sulla subordinazione e lo sfruttamento del lavoro domestico e di cura e, così facendo, costringono il capitale a ripensare l'intera organizzazione del lavoro.
 
Per tornare al tema da cui sono partita, è possibile, quindi, che le ridotte dimensioni delle cucine degli anni Sessanta e Settanta, spesso non controbilanciate dalla presenza  delle sale da pranzo,  siano determinate da fattori diversi dal disconoscimento del lavoro domestico e cioè, oltre che dalla diffusione dei surgelati e dei cibi pronti, dalla critica dell'attività di riproduzione, dalla contestazione rispettivamente dell'autorità maritale e di quella paterna e dall'aspirazione al superamento della famiglia patriarcale e nucleare che caratterizzano il movimento femminista e quello giovanile antisistemico.
Non è casuale, allora, che la cucina in Italia acquisti importanza e si espanda fino ad inglobare altri ambienti e ad acquisire un carattere multifunzionale proprio a partire dagli anni Ottanta, il decennio del riflusso, del ritorno al privato.
Che cosa proponevano Lotta femminista e, in seguito, i Comitati per il salario al lavoro domestico?   La remunerazione, ma anche la socializzazione dell'attività di riproduzione, idea rilanciata da Silvia Federici in Femminismo e politica del comune al tempo della cosiddetta accumulazione originaria, l'ultimo saggio della raccolta Il punto zero della rivoluzione, mentre alla sperimentazione di forme di commonfare fanno riferimento Beatrice Busi e Simona De Simoni nel bell'articolo pubblicato sul n.35 di alfabeta2, intitolato Soggettività insolventi .
Si tratta, del resto, di  riproporre un'idea già presente nel socialismo utopistico e ripresa più tardi dal comunismo.
Il titolo del mio articolo è estrapolato da un testo di Alexandra Kollontai, che auspicava  il superamento del lavoro domestico privato che sarebbe stato sostituito da quello collettivo, anche se affidato esclusivamente alle donne, e propugnava la socializzazione dell'educazione dei figli. Alexandra Kollontai   era favorevole anche alla  costruzione e alla diffusione delle case comuni come soluzione alternativa agli appartamenti privati.
 
La trasformazione della vita quotidiana e, di conseguenza, delle condizioni di esistenza della donna fu, allo stesso modo, influenzata dalle nuove condizioni di abitazione che la repubblica dei lavoratori instaurò. L'appartamento comunitario - la casa comune per famiglie e soprattutto per persone sole - è ampiamente diffuso da noi. In nessun paese ci sono tanti focolari comunitari come nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a installarsi in una casa comune. Non per «principio», evidentemente, non per convinzione, come facevano gli utopisti della prima metà del diciannovesimo secolo, i quali, seguendo i precetti di Fourier, organizzavano dei «falansteri» artificiali e non suscettibili di sviluppo, ma semplicemente perché è molto più facile e più comodo vivere in una casa comune. [..] Le case comuni sono sempre meglio attrezzate degli appartamenti privati; luce e combustibile vi sono assicurati. Non è raro che vi si trovi una riserva di acqua calda, una cucina centrale. La pulizia viene fatta da lavoratrici di professione. In talune case c'è una lavanderia centrale, in altre un nido o un giardino d'infanzia. [...] Sono soprattutto le donne - tutte quelle che sono costrette a conciliare il lavoro con la famiglia - che hanno pienamente coscienza dei vantaggi del focolare comunitario. Per queste donne lavoratrici la casa comune è il massimo beneficio, è la salvezza. [...]
 
Questa modalità abitativa,  variamente articolata e declinata, è stata rilanciata e riattualizzata dalle comuni hippy, dagli ecovillaggi, dagli squat (anche femministi) che presuppongono la condivisione di un progetto comune di vita.
Una soluzione intermedia è rappresentata dal cohousing,   una forma di vicinato elettivo in cui coesistono abitazioni private, che consentono di tutelare la privacy della famiglia,  e servizi comuni, che permettono di coltivare relazioni intense, di riscoprire valori come la socialità, la cooperazione e la solidarietà.
Sperimentate e promosse in Danimarca nel 1972 da esponenti del movimento studentesco e da persone che avevano vissuto in comuni che costituivano un' alternativa radicale alla proprietà privata e alla famiglia tradizionale, diffuse poi in Svezia, Paese le cui strutture di cohousing attingono ispirazione dal femminismo, come del resto in Olanda e sono in gran parte di proprietà delle amministrazioni comunali, affittate a poco prezzo ai residenti, le coabitazioni presentano quattro caratteristiche comuni.
1) La partecipazione. I residenti organizzano e concorrono ai processi di progettazione delle abitazioni e degli spazi comuni e assumono le decisioni in modo collegiale.
2) La progettazione è intenzionale e funzionale  all'instaurazione  di intense relazioni sociali e alla costituzione di un forte senso di appartenenza alla comunità.
3) La presenza imprescindibile di servizi e spazi comuni che integrano quelli privati.
4) La gestione diretta e collegiale della struttura da parte dei residenti.
 
Negli ultimi tempi si sta diffondendo il cohousing per gli anziani che dovrebbe soddisfare il loro desiderio di relazioni sociali significative e il loro bisogno di sostegno in situazioni di vulnerabilità e di ridotta autonomia.
Anche senza  prospettare la coabitazione, lo squat o l'ecovillaggio come soluzioni generali della questione abitativa, si potrebbero  proporre esperimenti di socializzazione almeno parziale delle incombenze domestiche e del lavoro di cura  da realizzare all'interno del progetto di istituzione della "moneta del comune". Di cosa si tratta?
Il 21 e il 22 giugno si è svolto a Milano un Convegno sul tema, cui hanno partecipato alcuni fra i più brillanti intellettuali post-operaisti. La sintesi  degli interventi, corredata da un ampio dossier, è riportata sul sito di Effimera. Si tratterebbe, in sostanza, di coniare una moneta, concepita come strumento di contropotere finanziario, dunque, non finalizzata né all'accumulazione, né alla fluidificazione della circolazione delle merci, ma intesa come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come potere d'acquisto da spendere  nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura..., ma anche trasporti) offerti all'interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d'uso e non di scambio. Questi servizi - mi chiedo- potrebbero includere, accanto ad attività di cura, anche   lavori domestici? (pulizia della casa, stiro, ecc.)? E' una domanda priva di senso?
Che ne pensate?
E' doveroso, però, constatare come questa proposta lasci comunque irrisolta la questione dello svolgimento da parte degli uomini di queste attività. Come  convincerli a  effettuarle?