venerdì 26 settembre 2014

La scuola come agenzia di socializzazione all'ordine gerarchico, alla violenza e alle norme di genere?


Pratiques genrées et violences entre pairs (Pratiche genderizzate e violenze tra i pari) è un corposo rapporto  (588 pagine), composto da numerosi saggi che sarebbe interessante analizzare distintamente, sulla presenza delle violenze di genere nella scuola secondaria francese di primo e di secondo grado. La ricerca illustra le dinamiche di riproduzione negli istituti di istruzione delle diseguaglianze tra i sessi, le modalità di attribuzione ad essi di ruoli rigidamente differenziati, l'onnipresenza e l'incontrastata supremazia dell'ordine simbolico e materiale patriarcale e gli effetti del controllo esercitato dagli studenti sulla condotta sessuale delle compagne di classe. La scuola si prospetta essere una delle principali agenzie di socializzazione alle norme di genere e di riproduzione delle gerarchie ed è in questo contesto che si inseriscono le violenze tra pari.
Il rapporto francese, le cui considerazioni e conclusioni si possono agevolmente trasporre alla situazione italiana, è stato elaborato sulla base delle interviste a 39 dirigenti scolastici e, soprattutto, sulla base dell'osservazione etnografica, durata un anno, delle interazioni tra studenti e studentesse e fra alunni e docenti in cinque istituti di istruzione: una scuola secondaria di primo grado (scuola media, collège in francese) situata in un quartiere periferico povero, un'altra e un liceo privato collocati in centro città, frequentati da alunni di diversa estrazione sociale, un istituto professionale per operatori meccanici posto in un quartiere decentrato definito dalle autorità "difficile" e infine un liceo pubblico d'élite.
 
Violenze, gerarchie e norme di genere
Le violenze, presenti in tutti gli istituti scolastici sia pure con frequenza e modalità differenti, assumono un marcato carattere di genere e si articolano in un ampio ventaglio di atti di crescente gravità: insulti sessisti, palpeggiamenti, aggressioni fisiche, stupri, questi ultimi, per fortuna, molto rari. Si tratta di violenze finalizzate all'appropriazione del corpo delle ragazze e al controllo della loro sessualità.
Le ingiurie, diffusissime, prendono di mira i caratteri solitamente collegati alla femminilità, sia quando sono dirette contro alcune ragazze, designate "puttane" tanto dai compagni quanto dalle compagne di classe, che quando sono rivolte a certi ragazzi, definiti, con tono sprezzante, "froci" (pédés), in quanto  percepiti come "effeminati". L'omofobia si configura, cioè, come una sorta di epifenomeno dell'inferiorizzazione del genere femminile e degli attributi cui è tradizionalmente associato.
La categoria del "genere" costituisce il modello di relazioni sociali fra i sessi incentrate sulla valorizzazione della mascolinità egemonica. Il sistema patriarcale, che dispone uomini e donne in ordine gerarchico, esalta il machismo e impone la norma eterosessuale, viene riprodotto a scuola    non solo nelle interazioni fra gli alunni, ma anche nelle relazioni tra studenti ed insegnanti.
In tre degli istituti scolastici oggetto della ricerca (quello professionale e le due scuole secondarie di primo grado) la violenza fisica si manifesta quotidianamente. In essi i ragazzi occupano il centro della scena e i loro rapporti si conformano al modello della mascolinità egemonica, fondato sulla sfida, sul disprezzo del pericolo, del dolore proprio e di quello altrui e sulla "parata virile" che consiste nel recitare la parte dei duri in un contesto marcato dal dominio e dalla rivalità per conquistare la leadership.
Un altro modo di affermare atteggiamenti machi consiste nell'inferiorizzare gli altri attraverso l'adozione di posture corporee che denotano disprezzo e attraverso l'impiego di un  linguaggio ingiurioso. Per questo motivo le ragazze vengono ridotte ad oggetti sessuali attraverso il ricorso ad epiteti sessisti. Gli altri studenti possono essere inferiorizzati anche attraverso l'enfatizzazione dell'appartenenza dei leader ad una classe sociale superiore o attraverso la manifestazione di atteggiamenti razzisti.
Negli istituti scolastici dove vengono commessi quasi ogni giorno atti di violenza, insegnanti e studenti sono impegnati in una costante attività di interpretazione, poiché lo stesso gesto, la stessa parola, a seconda del contesto, del rapporto tra i protagonisti, dell'intonazione, può configurarsi come aggressione o, al contrario, esprimere affetto ed intimità. Questa perenne necessità di decodificare ogni vocabolo e ogni atto produce una palpabile e costante tensione. Nessun'azione è neutra e trasparente (dare la precedenza e lasciar passare qualcuno nei corridoi, guardare qualcuno negli occhi). Ogni interazione costituisce, infatti, una manifestazione di dominio o di subordinazione che si iscrive in un ordine gerarchico instabile nel quale la posizione che ciascuno occupa nel gruppo, sempre passibile di avanzamento o di declassamento, è negoziata in permanenza.
Le violenze fisiche tra studentesse sono molto rare, ma i loro rapporti, come quelli fra studenti, sono regolati dal principio gerarchico. La differenza rispetto ai ragazzi consiste nel fatto che la loro collocazione gerarchica non dipende soltanto dall'audacia e dalla risolutezza, ma anche dalle valutazioni ed autovalutazioni costanti dell'abbigliamento, dell'acconciatura, del trucco. Le studentesse cercano incessantemente e con un'implacabile severità di esercitare un fascino seduttivo che non oltrepassi però un sottile limite. Il rischio è, infatti, quello di essere giudicate da compagni e compagne "puttane", anziché "sexy". La pratica della seduzione, conforme ai ruoli di genere e alle aspettative sociali, espresse anche dai dirigenti scolastici che operano una distinzione tra le ragazze fondata sulla loro presunta o reale disponibilità sessuale, mira a conquistare l'apprezzamento dei ragazzi e sfocia in una rivalità fra studentesse, che impedisce loro di essere solidali e di costituirsi come gruppo coeso.
Le violenze fisiche contro le ragazze perseguono l'obiettivo di rimetterle al loro posto. Se il gruppo degli studenti, così come quello delle studentesse, presenta infatti al proprio interno un'organizzazione gerarchica, resta il fatto che il primo, nel suo complesso, esercita e pretende di mantenere il dominio sul secondo. Quando una ragazza tenta di distinguersi e di imporsi su uno o più ragazzi, viene considerata troppo audace e la si richiama immediatamente all'ordine. "Pourquoi tu fais ta belle?", le si chiede con aria di rimprovero. "Faire sa belle" significa attribuirsi un'importanza e un potere superiore a quello che spetta ad una ragazza.  Si tratta di un comportamento valutato come grave trasgressione dell'ordine naturale delle cose. Solo eccezionalmente una ragazza riesce ad emergere e ad imporsi sul gruppo dei ragazzi. Ciò avviene quando è in grado di assumere attributi ipervirili e, contemporaneamente, di apparire particolarmente sexy, ma non fino al punto da poter essere giudicata una "poco di buono".
Nell'istituto professionale collocato in un quartiere "difficile" il principio gerarchico viene applicato con particolare rigidità, quasi che in esso gli studenti individuassero la possibilità di un riscatto e l'occasione per vedersi riconosciuto quel valore sociale e narcisistico che è loro negato dall'ambiente circostante che offre solo precarietà e disoccupazione. Gli insegnanti dell'istituto adottano gli stessi comportamenti e codici espressivi degli studenti: gridano per farsi ascoltare, urtano gli alunni...
Negli istituti scolastici nei quali regna un'atmosfera più tranquilla, meno caotica,  la violenza di genere assume altre forme, in particolare nel liceo d'élite. Qui non si odono insulti sessisti. Le ingiurie sono formulate secondo un registro ironico-sarcastico e attengono agli insuccessi scolastici e sociali. Gli studenti e le studentesse si valutano reciprocamente in base al criterio dell'appartenenza o meno alla classe sociale dominante, che si manifesta anche nella distinzione,  nella raffinatezza dei gusti e nella conformità a determinati canoni estetici, economici, intellettuali e comportamentali. La sanzione peggiore consiste nell'esclusione dal gruppo e nell'invisibilizzazione degli alunni meno abbienti e privi di stile.
Poiché la scuola rappresenta un universo chiuso ed è frequentata da adolescenti che stanno definendo la propria identità, vi si osserva con maggior chiarezza il funzionamento del sistema eteronormativo e l'assegnazione di ruoli, funzioni, comportamenti diversi a seconda del genere cui si appartiene. Negli istituti i cui iscritti appartengono ai ceti popolari  vige un modello di virilità particolarmente costrittivo e un ideale di femminilità caratterizzato da tre ingiunzioni contraddittorie: essere caste, morigerate per godere di buona reputazione, essere sexy, ipersessualizzate, seducenti e, contemporaneamente, saper evitare lo stigma della "puttana".
Nelle scuole frequentate da studenti appartenenti alle classi dominanti, il sistema eteronormativo opera in modo più discreto. Esso, in ogni caso, reprime severamente tutto ciò che turba il binarismo. Di qui la diffusione nelle scuole dell'omofobia e della transfobia, nonché la stigmatizzazione dei tratti ritenuti femminili presenti nei ragazzi e di quelli maschili presenti nelle ragazze.
 
Le lezioni
Il clima negli istituti scolastici oggetto della ricerca è ansiogeno.
Meno della metà delle lezioni si svolgono in un'atmosfera centrata sul lavoro, le altre si snodano fra l'indifferenza, la noia e, più raramente, il brusio che può trasformarsi in caos.
Il comportamento degli alunni esprime rifiuto, aperto conflitto, ostilità nei confronti degli insegnanti e dell'istituzione scolastica.
Gli studenti devono affrontare due contraddizioni. Da un lato, per concentrarsi ed ascoltare la lezione, devono isolarsi dal gruppo e ciò pare loro impossibile: avvertono, infatti, l'urgenza di dirsi cose che ritengono importanti e che consentono loro di tessere e mantenere relazioni significative ed ottenere il riconoscimento dei compagni di classe. Dall'altro lato, un coinvolgimento eccessivo espone al rischio di perdere la faccia e di subire un declassamento, sia perché si possono commettere errori nell'esecuzione dei compiti assegnati, sia perché, mostrando interesse, si dà prova di sottomissione all'insegnante e all'istituzione scolastica (L''ideale è il conseguimento di risultati brillanti, dando l'impressione di non impegnarsi troppo). La questione si complica per le ragazze che, se palesano interesse e partecipazione e ottengono buoni voti, vengono accusate di mettersi in mostra.
Nel caso in cui le lezioni si svolgano in un'atmosfera chiassosa, molti professori non si accorgono o fingono di non accorgersi delle trasgressioni studentesche delle norme scolastiche, comportamento che viene interpretato dagli alunni come una forma di subordinazione, come una dichiarazione di impotenza e di inferiorità. Questi insegnanti oscillano da una postura all'altra, assumendo talvolta un atteggiamento amichevole, bonario, confidenziale, rivendicando talaltra un'autorità che non viene loro riconosciuta.
Riescono a catturare l'attenzione degli alunni o, quanto meno a ottenere il silenzio, invece, i docenti che adottano due differenti modalità di comportamento. Alcuni si mostrano credibili ed autorevoli mostrando per le discipline che insegnano una passione e un coinvolgimento che colpisce gli studenti, suscitando entusiasmo in almeno alcuni di loro. Altri, invece,  si inseriscono nell'ordine gerarchico, occupando la posizione più elevata e affermano il loro potere adottando un atteggiamento autoritario.
In sostanza, le interazioni tra insegnanti e studenti riproducono e confermano, agli occhi di questi ultimi, la validità e la solidità del sistema gerarchico che regola le relazioni tra pari.
 
Gli adulti e l'eteronormatività
L'istituzione scolastica  è una delle principali agenzie di socializzazione alle norme di genere trasmesse, spesso inconsapevolmente, dal personale educativo. I dirigenti scolastici intervistati dalle autrici della ricerca ritengono ad esempio che una dominazione maschile discreta e l'accettazione da parte delle ragazze di un ruolo complementare, se non ancillare, nei confronti dei  ragazzi garantisca il mantenimento della pace all'interno dell'istituto. Inoltre, attribuiscono generalmente gli atti di violenza alle condizioni sociali  e culturali degli alunni, piuttosto che ai rapporti di potere che regnano fra i generi.
Il personale educativo nel suo complesso, sia pure inconsapevolmente, concorre al mantenimento dei comportamenti machisti degli studenti attraverso la banalizzazione e la minimizzazione costante delle violenze e delle costrizioni da essi esercitate sulle ragazze. Gli insegnanti, inoltre, condividono gli stessi stereotipi di genere degli studenti e, in particolare, attribuiscono alle studentesse la responsabilità di eccitare, sedurre, provocare i compagni e, dunque, indirettamente, anche quella di cagionare le violenze che subiscono.
 
Qualche consiglio
Si tratta, dunque, in primo luogo, per i docenti di acquisire consapevolezza delle dinamiche di genere che si innescano a scuola e di porre fine alla tendenza a sminuire l'importanza delle violenze. E' necessario che gli studenti ne comprendano la gravità, la crudeltà e l'illegittimità.
La sezione conclusiva della ricerca offre interessanti consigli ai docenti. Mi limiterò a riportare una considerazione di Annie Léchenet. Questa insegnante, formatrice e ricercatrice si chiede se sia la costruzione della mascolinità ad ingiungere ai ragazzi di imporre il proprio dominio o se non sia, al contrario, l'esistenza della gerarchia  ad indurli ad utilizzare uno dei più efficaci strumenti di dominio che esista: il genere, che costituirebbe dunque una sorta di epifenomeno. In quest'ultimo caso converrebbe configurare la scuola come uno spazio che educhi non solo al superamento degli stereotipi di genere, ma anche all'abbattimento delle gerarchie, all'annullamento della preoccupazione di esercitare il dominio.
Quanto ai preconcetti connessi al genere, la scuola dovrebbe favorire l'espressione di comportamenti femminili attivi, determinati, liberi e disincentivare la manifestazione da parte dei ragazzi di atteggiamenti da machi che negano la paura, le emozioni e il bisogno degli altri e che individuano nella violenza l'unica modalità di risoluzione dei conflitti. 
Per quanto riguarda, invece, il superamento del modello sociale fondato sulla gerarchia, Annie Léchenet propone di  conformare l'insegnamento ai principi della pedagogia libertaria, che favorisce la partecipazione attiva ed egalitaria di tutti gli studenti e le studentesse al processo educativo. Si dovrebbe facilitare la presa di parola di tutti gli alunni e creare un clima propizio all'apprendimento imperniato su un modello cooperativo, anziché competitivo.
Si tratta - va detto -, riferendoci a quel che avviene in Italia, di pratiche educative marcatamente anticonformiste e controcorrente non solo rispetto a quelle adottate generalmente nelle scuole, ma soprattutto rispetto al modello di istruzione delineato da Matteo Renzi che si propone di "formare soggettività flessibili conformi alle regole del mercato" e, dunque, competitive e di legittimare le diseguaglianze, anziché combatterle, razionalizzando l'esclusione, come osserva giustamente Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica all'Università Federico II di Napoli
Si tratta inoltre, quanto a stereotipi di genere, di modelli pedagogici decisamente antitetici a quelli proposti a Trento dalla "Scuola delle principesse"(Esiste pure l'Accademia per la formazione delle suddette). Le aspiranti principesse saranno educate alle buone maniere nel  servire e sorbire il té (vedi il corso di merenda chic) e nel salire e scendere le scale, apprenderanno la corretta ed elegante dizione, la danza, il canto in italiano e addirittura in inglese, la calligrafia. (Non sono previste, invece, lezioni di digitazione principesca sulle pink tastiere di  pink pc, forse perché troppo banali ). Al termine dei corsi le bambine non avranno appreso nulla di particolarmente utile ad una prosaica esistenza, per usare le parole ironiche della fondatrice della scuola, ma sapranno servire il té con una grazia impareggiabile: competenza davvero indispensabile e, soprattutto, giovevole al superamento degli stereotipi di genere.  
 

mercoledì 10 settembre 2014

Genealogie del presente


Genealogie del presente, pubblicato da Mimesis, è un lessico politico concepito, come chiarisce la magnifica introduzione di Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini e Federico Zappino, come strumento  di lotta, oltre che di decodificazione della realtà, e come manifestazione di un pensiero il cui potenziale trasformativo si traduca nel dissolvimento delle regole consolidate di comportamento e nell'apertura di nuovi ambiti di conflitto e di inediti orizzonti di senso. Per questo il libro si propone di evidenziare, nell'esposizione dei concetti, di cui traccia la genealogia, intesa in senso foucaultiano, ciò che si oppone all'ordine del discorso e che deborda dalla semantica ufficiale, sia allo scopo di disvelare i rapporti di potere e la retorica del dominio che presiede all'uso di determinate parole sia al fine, contrario, di estrarre da certi lemmi significati alternativi, conflittuali e sovversivi, che servano a performare una realtà radicalmente altra nella quale possa svolgersi una vita buona.
Non è difficile individuare alcuni caratteri comuni a tutti i saggi che compongono il libro: l'esaltazione della dimensione conflittuale e della carica critica dei concetti politici analizzati, occultata e demonizzata nel discorso egemonizzato dal potere economico e politico, cui siamo invitati a sottrarci, il disvelamento della retorica della dominazione che presiede all'uso di certi vocaboli e alla selezione strategica dei loro significati meglio corrispondenti al mantenimento dello status quo, la valorizzazione della prassi come costitutiva di realtà (il movimento, ad esempio) e nozioni (l'uguaglianza), la celebrazione della mobilitazione permanente e della resistenza, concepita come fuga dalla cattura dei dispositivi di comando.
Genealogie del presente, infatti, come dichiarano gli autori dell'introduzione, si prefigge l'obiettivo di spostare l'accento dalla dimensione semantica delle parole a quella performativa al fine di evitare l'ipostatizzazione dei concetti e, al contempo, di dispiegarne le potenzialità trasformative.
Come acutamente rilevato da Anna Simone,  questo lessico non include i lemmi "capitalismo" e "neoliberismo" perché si focalizza sui loro effetti e su alcune forme di resistenza (Bene comune, Movimento e Eguaglianza). A proposito di queste ultime, dal libro è stata esclusa anche la voce "lotta di classe" per la sua forclusione dal discorso pubblico, ci spiegano gli autori dell'introduzione, e per il probabile riassorbimento nei lemmi Beni comuni e Movimento. Tuttavia, come ho già osservato, il conflitto affiora e viene esaltato nella trattazione della maggior parte delle voci.
L'esposizione dei concetti di crisi, costituzione, democrazia, eccellenza, governabilità, legalità, popolo, povertà, precarietà, responsabilità, sacrificio, società, trasparenza consente di illustrare gli effetti del neoliberismo. Crisi è, ovviamente, termine ricorrente nella trattazione di queste voci e  viene giustamente interpretata, sulla scia di Marx ed Engels, come la normale modalità di funzionamento ciclico del modo di produzione capitalista che, nella sua forma neoliberista, osserva Federico Zappino, dà origine ad una soggettività produttiva, la cui vita è interamente assorbita dal lavoro, e debitrice, inserita in molteplici relazioni debitore/creditore, la cui perpetuazione è connessa all'incorporazione melanconica di un paralizzante senso del peccato, della colpa e del dovere, che affonda le sue radici nella morale cristiana.
Zappino individua una via di fuga a questa opprimente situazione nella riscoperta di un significato diverso di crisi: quello, attinto dalla tradizione storiografica e filosofica greca, di giudizio, ossia di valutazione critica, la cui applicazione potrà dischiudere prospettive inedite e condurci a rifiutare di concorrere alla perpetuazione  di soggettività produttive  e debitrici.
Prospettive inedite Adalgiso Amendola intravede nella crisi della costituzione, strumento la cui funzione nell'età moderna è consistita nell'operare un'impossibile mediazione fra il movimento centrifugo dei soggetti e la costruzione unitaria dello Stato. L'attuale processo di decostituzionalizzazione  lascia aperto il campo ad esperimenti istituenti che si collochino al di là della dicotomia stato/società civile, pubblico/privato, producendo la progressiva emersione di un nuovo "diritto del comune". Per Ugo Mattei e Michele Spanò, invece, la forma costituzionale rimane l'unico dispositivo ancor oggi disponibile per concepire e attuare la trasformazione della realtà. Dalla crisi della Costituzione si esce, osservano gli autori, attraverso un nuovo processo costituente, europeo e postcoloniale, che fondi il "diritto del comune".
Ai beni comuni è consacrato il saggio di Maria Rosaria Marella  che li distingue dal bene comune inteso come ciò che giova a una comunità pacificata, omogenea e coesa. I beni comuni, invece, risorse sottratte allo spossessamento del comune, gestite in modo partecipato da una determinata collettività, rappresentano una potenziale critica al sistema e incorporano una dimensione conflittuale come qualsiasi reale istanza egalitaria.
Anche Cristina Morini, nel suo saggio sulla precarietà, invita a superare la logica del welfare e del workfare per istituire il commonfare, fondato appunto sulla cooperazione sociale nella gestione dei beni comuni (acqua, aria, cibo, ambiente, conoscenza, linguaggio, socialità). L'autrice, che  giustamente concepisce la precarietà come condizione al contempo lavorativa ed esistenziale, strutturale, disciplinare e generalizzata, individua la possibilità di uscire da questa situazione nel conflitto contro il capitale, ossia nella riappropriazione del reddito da realizzare attraverso l'insolvenza, l'introduzione di un reddito di esistenza, la condivisione di saperi (eliminazione della proprietà intellettuale) e nella sperimentazione di forme di autorganizzazione e di autogestione. Sono d'accordo con lei, ovviamente.
Potrei proseguire la "recensione" esponendo succintamente il contenuto degli altri saggi, altrettanto importanti e interessanti, che compongono il lessico, ma mi rendo conto che le mie sintesi sortiscono l' effetto di banalizzare e, al contempo, di rendere poco comprensibili contributi densi, complessi, articolati e di privare lettrici e lettori del piacere della scoperta. Questi saggi, espressione del pensiero critico, disegnano, infatti, paesaggi e orizzonti inediti, attraverso l'impiego di categorie di analisi diverse dalle solite, producendo nei lettori una sensazione di benefico spaesamento, di disancoramento dalle ortodossie e di slancio verso un mondo nuovo. Ciò configura Genealogie del presente come prezioso strumento di trasformazione della realtà. Per questo  vi consiglio caldamente di leggerlo.
 
N.B E' probabile che dedichi ancora almeno un articolo a qualcuno dei saggi contenuti in questo libro.
Qui trovate una parte dell'introduzione.