Un mercato del lavoro
patriarcale, familistico, asfittico, imperniato sulla figura del marito
breadwinner, sulla marcata segregazione occupazionale sessuale e razziale,
sulla crescita dei settori del terziario arretrato e sulla contrazione dell'impiego
nelle già poco richieste professioni tecniche e intellettuali più qualificate:
è questo il desolante quadro tratteggiato nell'agile e denso volumetto Dieci domande su un mercato del lavoro in
crisi scritto dal sociologo Emilio Reyneri e dalla ricercatrice dell'Istat
Federica Pintaldi, pubblicato da Il Mulino,
che descrive la situazione delineatasi nel periodo 2008-2012.
L'Italia è il paese europeo caratterizzato dalla minore capacità di creare
occupazione, che viene ridistribuita tra i "capifamiglia" maschi, a
scapito delle mogli o delle conviventi e dei figli. I nuclei familiari con un solo occupato, di
regola il padre, rappresentano il 48% del totale. Il tasso di occupazione dei
"capifamiglia" uomini (single inclusi) sfiorava nel 2009 l'80%,
quello delle donne di pari condizione
solo il 65%, mentre i congiunti (figli e moglie) svolgevano un lavoro
retribuito soltanto nel 50% dei casi. Formare un nucleo familiare costituisce,
dunque, per gli uomini una garanzia di minore esposizione al rischio di
disoccupazione in tutti i Paesi europei, ma soprattutto in Italia. Alle donne
accade esattamente il contrario. Lo status di figlia, di coniuge o convivente,
soprattutto se madre, comporta un innalzamento del tasso di disoccupazione e di
mancata partecipazione al lavoro, ossia di ricerca poco attiva dell'occupazione
a causa della frustrazione derivante dalla scarsità di impieghi disponibili e
dalla presentazione senza successo di
troppe domande di assunzione.
Il tasso di mancata partecipazione
femminile al lavoro nel 2012 ha raggiunto il 15% al Nord, il 27% nell'Italia
centrale e addirittura il 43% al Sud, dove risultano occupate soltanto il 34%
delle donne.
Che impatto ha avuto la crisi
su questa situazione?
L'assetto familistico del mercato
del lavoro non è stato sconvolto, anche
se il tasso di occupazione degli uomini breadwinner si è ridotto di due punti
percentuali, mentre quello delle donne che svolgono la medesima funzione è
aumentato nella stessa misura. La crisi ha però dispiegato i suoi effetti più
gravi non sulla famiglia tradizionale composta dalla coppia con o senza figli,
ma sui single, privi di lavoro nel 18% dei casi se maschi, nel 23% se femmine.
Si è avuto inoltre un incremento dal 17% del 2008 al 20% del 2012 della percentuale
di madri single senza occupazione. Il tasso corrispondente per i padri single è
del 7% (nel 2008 era pari al 5%).
L'impianto familistico del
mercato del lavoro ha subito invece incrinature nel Sud, colpito dalla crisi
più duramente del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno negli ultimi anni si è innescato un processo di
riduzione del tasso di occupazione degli uomini breadwinner (dal 75,3% del 2004
al 69,5% del 2012), non compensato da un corrispondente incremento dell'occupazione
femminile, sicché la percentuale di famiglie meridionali senza redditi da
lavoro né da pensione è cresciuta dal 12% del 2004 al 17% del 2012 e quella dei
nuclei familiari poveri ha raggiunto il 23% nel 2011, a causa dell'assenza di
efficaci politiche di welfare.
In che modo la crisi ha
inciso sulla collocazione delle donne sul mercato del lavoro?
Il tasso di occupazione
femminile pari al 46,5% nel 2013 è il più basso dell'Unione Europea. Nel
Mezzogiorno nel 2012 svolgeva un'attività retribuita soltanto il 34% delle
donne contro il 40% nel 2003. Con l'avvio della crisi nel 2008 e fino al 2011
in tutta Italia una frazione consistente di donne, pari all'8,5% ha cessato,
per frustrazione, di ricercare attivamente un'occupazione per ingrossare le fila degli inattivi disponibili
al lavoro. Il quadro è mutato nel 2012, quando il numero dei disoccupati,
uomini soprattutto, ha subito una vertiginosa impennata e le casalinghe, per
sostenere economicamente la famiglia, hanno iniziato a ricercare attivamente un
lavoro senza necessariamente trovarlo. I tassi di occupazione, di
disoccupazione e di mancata partecipazione sono diventati più elevati per le
single e per le donne con figli, per le quali le rispettive percentuali sono
aumentate di oltre 1 punto, di quasi 1,5 punti e di 1 punto. L'incremento
dell'offerta di lavoro ha coinvolto soprattutto le donne con titolo di studio
non superiore alla licenza media, appartenenti, dunque, a famiglie di ceto
medio-basso, le cui condizioni economiche
sono diventate critiche, probabilmente in seguito al licenziamento o
alla messa in cassa integrazione del
marito o convivente breadwinner. Queste donne vorrebbero esercitare
un'attività retribuita a tempo pieno: bisogno irrimediabilmente frustrato.
Dal 1993 anche in Italia,
come in altri Paesi europei, l'incremento dell'occupazione femminile è in larga
misura connesso alla crescente diffusione del part-time, tanto che dal 2004 al
2012 tutti i 700.000 nuovi posti di
lavoro per le donne sono a tempo parziale, anche se esse desidererebbero spesso
esercitare un'attività a tempo pieno, l'unica in grado di garantire
l'indipendenza economica, considerato l'infimo livello dei salari italiani. La
percentuale di part-timer involontarie è aumentata dal 38% nel 2008 al 54% nel
2012, un incremento molto marcato, che accomuna l'Italia ai Paesi europei più
duramente colpiti dalla crisi: Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo.
Ad influenzare fortemente il
tasso di partecipazione femminile al lavoro è la carenza di servizi pubblici,
soprattutto di quelli destinati all'infanzia, e il deciso squilibrio fra uomini
e donne nella ripartizione del lavoro domestico e di cura.
La crisi ha accresciuto
l'instabilità occupazionale dei giovani, soprattutto di quelli più istruiti.
Nel 2012 il 52% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa fra i 15 e i 24
anni svolgeva un lavoro precario contro il 42% del 2007. Nello stesso periodo
la percentuale dei giovani adulti dai 25 ai 34 anni con un impiego a tempo
determinato è aumentata dal 20% al 23%,
ma ha raggiunto addirittura il 70% fra i laureati (era pari al 65% nel 2007).
Circa un quinto dei precari
lo è da oltre cinque anni. Quasi il 30% di loro è occupato in settori
caratterizzati da un'elevata stagionalità come l'agricoltura e il turismo e
oltre il 30% nella pubblica amministrazione, nell'istruzione e nella sanità. Si
comprende quindi perché l'incidenza dei
lavori instabili di lungo periodo sia maggiore tra le donne (circa due punti
percentuali di differenza rispetto agli uomini) e soprattutto nel Mezzogiorno
che presenta un tasso di precarietà prolungata che oscilla intorno al 26%
contro il 16-18% del Centro-Nord.
Provate ad immaginare che
impatto avrà in un mercato del lavoro siffatto l'applicazione della legge
Poletti e del Jobs act.
La crisi ha accelerato il
processo di deindustrializzazione, colpendo principalmente l'occupazione
manifatturiera (8% in meno nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012, con
l'esclusione, però dei cassintegrati), oltre a quella impiegata nell'edilizia.
L'industria italiana risulta più esposta alla concorrenza internazionale perché
poco innovativa e più specializzata in produzioni a bassa tecnologia.
L'occupazione si è ridotta anche nel settore del credito e delle assicurazioni,
nel commercio e nei trasporti e ciò è avvenuto anche negli altri paesi della
UE. E' aumentata, invece, nella sanità e nei servizi sociali, ma si è ridotta
nella pubblica amministrazione. A questo proposito, è importante ricordare che
l'Italia, contrariamente a quanto comunemente si crede, non è caratterizzata da
un surplus di lavoratori in questi due settori, essendovi un occupato nella
sanità e nei servizi sociali ogni 34 abitanti e un impiegato nella pubblica
amministrazione ogni 44 contro una media europea rispettivamente di 20 e 33
abitanti.
A connotare la situazione
italiana e a differenziarla da quella degli altri Stati europei è, però, la
riduzione dell'occupazione nell'istruzione e nei servizi all'impresa, inclusa
la ricerca e lo sviluppo e l'aumento considerevole nei servizi per le famiglie,
ossia nel lavoro domestico e nell'assistenza delle persone anziane. La crisi ha
prodotto, quindi, un'accelerazione del processo di terziarizzazione a favore
dei settori arretrati e a discapito di quelli più innovativi che incorporano
maggiori conoscenze tecnologiche, scientifiche e culturali, al contrario di
quel che è accaduto in altri Paesi europei, in particolare in Germania. Il
lavoro cognitivo assorbe solo il 12% degli occupati, una percentuale inferiore
di sette punti a quella tedesca e di dieci a quella francese.
Ho fatto cenno all'assistenza
alle persone anziane che, in un mercato del lavoro contrassegnato da una rigida segregazione occupazionale
sessuale e razziale, è affidato nella misura del 75% alle donne emigrate.
In Italia risiedono quasi 5
milioni di cittadini stranieri, corrispondenti a circa l'8% della popolazione.
Quasi un terzo di loro proviene da uno Stato membro dell'Unione Europea. Oltre
la metà degli immigrati non comunitari è provvisto di un permesso di soggiorno
a tempo indeterminato, che si acquisisce solo dopo aver esercitato per almeno 5
anni un lavoro regolare e aver dimostrato di possedere una buona conoscenza
della lingua italiana e di abitare in un alloggio adeguato.
Ai cittadini stranieri sono
riservate le occupazioni più faticose e meno qualificate, anche a causa del
perverso legame che la legge Bossi-Fini sull'immigrazione ha stabilito tra
concessione del permesso di soggiorno e svolgimento di un lavoro. Per trovare
rapidamente un'occupazione occorre adottare una strategia di ricerca poco
selettiva ed accettare la prima occasione che si presenta, benché pessima.
Quasi tutti gli immigrati, quindi, anche quelli provvisti di un elevato titolo
di studio, sono collocati ai gradini più bassi della gerarchia occupazionale.
Le posizioni meno prestigiose sono occupate dalle donne, dal momento che,
ovviamente, il principio della divisione
sessuale del lavoro si applica
anche e in modo ancora più rigido ai cittadini stranieri, processo accentuato
dalla crisi. Così, dal 2008 al 2012 la
percentuale degli occupati in attività elementari, prive di uno specifico
contenuto professionale, è cresciuta dal 22% al 28% per gli immigrati e dal 40%
al 43% per le immigrate. Anche la percentuale di lavoratori manuali
specializzati è diminuita per entrambi i generi, mentre è aumentata,
soprattutto per le donne, quella degli addetti ad attività commerciali e ai
servizi alla persona (cameriere, commesse e "badanti").
Quanto ai settori produttivi,
tralasciando l'agricoltura (ove la presenza degli immigrati è fortemente
sottostimata dalla rilevazione sulle forze di lavoro, che ignora gli stagionali
e gli irregolari), quelli caratterizzati da una maggior concentrazione di
cittadini stranieri sono i servizi alle famiglie (oltre il 76%), le costruzioni
(quasi il 19%), gli alberghi e la ristorazione (circa il 16%), l'industria
manifatturiera (quasi il 10%) e i trasporti (oltre il 9%).
Tra le generazioni più
giovani di operai le percentuali di stranieri sono molto elevate: sino ai 34
anni gli immigrati sfiorano il 23% fra gli specializzati, superano il 26% tra i
semi-qualificati e il 40% tra i non qualificati. La presenza di lavoratori
stranieri è ancora più massiccia nelle piccole imprese ove il lavoro manuale
risulta particolarmente gravoso.
Alle donne immigrate viene
invece accollato in misura preponderante (oltre il 75% del totale) il lavoro
domestico e di assistenza agli anziani, ma si registra anche una loro cospicua
presenza nel settore sanitario dove svolgono- non c'è bisogno di dirlo - i
lavori più gravosi, monotoni e meno qualificati, in particolare quello di
inservienti e di addette alle pulizie (il 25% del totale per le giovani fino a
34 anni), ma anche l'attività di infermiere.
Che fare?
In Italia il tempo consacrato
dalle donne al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell'Unione Europea e
quello che vi dedicano gli uomini il più basso (dati Eurostat del 2006). Allo
stesso tempo il tasso di occupazione
femminile è il meno elevato .
I due dati sono strettamente correlati, naturalmente. Altrettanto evidente appare la connessione tra l'assetto
familistico del mercato del lavoro e quello del welfare, impostato sulla rigida
divisione dei ruoli di genere. Gli uomini provvedono al mantenimento della
famiglia, le donne sono delegate (e relegate) allo svolgimento del lavoro
domestico e di cura. A loro continua ad
essere affidata l'assistenza degli anziani non autosufficienti, degli infermi e
dei bambini, considerata la drammatica carenza dei servizi pubblici. E'
necessario pertanto destrutturare l'intero sistema imperniato sul principio
della divisione sessuale del lavoro se si vuole riequilibrare il rapporto fra
uomini e donne.
Come procedere?
Non me ne intendo di economia,
ma posso attingere ad un vasto repertorio di idee e proposte già formulate da altri ed aggiungerne qualcuna nuova (non so quanto
realizzabile per la verità):
1) Per evitare la
discriminazione delle donne, dei migranti e dei giovani sul mercato del lavoro,
si dovrebbe ripristinare l'obbligo della richiesta numerica nelle assunzioni,
abrogato nel 1987 e sostituito dalla chiamata nominativa. Il sistema è stato
poi completamente liberalizzato nel 1996.
I datori di lavoro, che intendono assumere personale, dovrebbero cioè
rivolgersi obbligatoriamente ai Centri per l'impiego e presentare una "richiesta di
avviamento al lavoro", nella quale andrebbero inseriti soltanto dati
relativi al numero dei dipendenti richiesti e alla qualifica che devono
possedere. Gli aspiranti lavoratori verrebbero inclusi in un'unica graduatoria,
non differenziata, cioè, per genere e per nazionalità. Il sistema violerebbe le
norme sulla libera concorrenza? Embé! Infrangiamole! Il principio della non
discriminazione è più importante del rispetto delle regole del mercato.
2) Si dovrebbe procedere alla
riduzione massiccia dell'orario di lavoro a parità di salario. Ciò
consentirebbe di ridistribuire su una più ampia platea di soggetti gli impieghi
disponibili. Questa misura dovrebbe essere affiancata dalla promozione di un
processo di socializzazione e da un mutamento culturale tale da produrre lo
smantellamento dei ruoli di genere. Gli uomini sarebbero così indotti a
svolgere le stesse mansioni domestiche e di cura delle donne. La riduzione
dell'orario di lavoro si tradurrebbe pertanto in una più equa ripartizione non
solo degli impieghi produttivi, ma anche di quelli riproduttivi e in una più
ampia disponibilità di tempo libero, soprattutto per le donne. La produzione
dovrebbe essere cioè riprogettata e adattata a lavoratori e a lavoratrici che
si assumono in ugual misura responsabilità di cura.
3) Si dovrebbe diminuire in
modo significativo anche l'età pensionabile.
4) L'intera normativa sul lavoro che in questi due decenni ha
introdotto la precarietà ed ha sottratto diritti alle lavoratrici e ai
lavoratori dovrebbe essere abrogata, a partire dalla legge Poletti che ha
sancito la totale liberalizzazione del contratto a termine e dal Jobs Act
(legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 e relativi
decreti attuativi sui licenziamenti).
4) Si dovrebbe introdurre un reddito di
esistenza universale e incondizionato, esteso agli immigrati. La sua erogazione
potrebbe configurarsi come un potenziale contropotere, che incrinerebbe le condizioni
di forte subordinazione dei precari.
Garantire infatti un reddito stabile e continuativo a prescindere dalla
prestazione lavorativa significherebbe ridurre il grado di ricattabilità dei
singoli lavoratori/trici e incrementare il loro potere contrattuale. Significherebbe anche affermare il diritto di
scegliere l'attività lavorativa e di riappropriarsi della quota di ricchezza
sociale che si è contribuito a creare per il fatto stesso di esistere e di
esercitare costantemente le proprie capacità di apprendimento e come
remunerazione del lavoro produttivo di valori d'uso. La disponibilità di un reddito costituirebbe, soprattutto, uno strumento importante
per l'esercizio dell'autodeterminazione, in particolare per le donne, in
maggioranza prive di un'occupazione retribuita, consentirebbe alle vittime di
sfuggire più agevolmente alla violenza dei partner e alle mogli prive di lavoro
di separarsi più facilmente dai compagni nel caso in cui il matrimonio o la
convivenza fossero diventati fonte di infelicità.
Si dovrebbe però scongiurare il fatto che
l'introduzione di tale misura si risolva in una rinuncia da parte delle donne ad esercitare un'attività
extradomestica che ritengono gratificante per evitare la fatica del doppio lavoro e in
un disimpegno ancora maggiore degli uomini nello svolgimento delle incombenze
domestiche e nell'assistenza a bambini, anziani, infermi. Ne deriverebbe il
rafforzamento dei tradizionali ruoli di genere e, forse, un ulteriore ridimensionamento dello stato sociale.
Si dovrebbe soprattutto evitare che i datori
di lavoro accentuino la loro predilezione per gli uomini nelle assunzioni,
consolidando e irrobustendo la struttura familistica e patriarcale
dell'organizzazione produttiva.
Per sfuggire a queste conseguenze è fondamentale, a mio avviso, affiancare a questo provvedimento la riduzione
dell'orario di lavoro e innescare un processo di decostruzione dei generi e
delle funzioni ad essi attribuite.
5) Si potrebbe eventualmente
prendere in considerazione la creazione diretta da parte dello Stato o
dell'Unione Europea di nuova occupazione qualificata, socialmente utile ed
ecocompatibile e si dovrebbe procedere alla riconversione secondo tali principi
dell'intera economia.
6) Si dovrebbe introdurre un
salario minimo europeo e pretendere il superamento del blocco dei contratti
nella pubblica amministrazione contro il quale i sindacati hanno già depositato
un ricorso al Tribunale di Roma, sollevando la questione di legittimità
costituzionale.
7) Ritengo poi indispensabile
estendere e riconfigurare il welfare state, o meglio, organizzare un commonfare imperniato sulla cooperazione sociale nella gestione dei
beni comuni.
8) Ciò comporta preliminarmente l'abrogazione
della norma sul pareggio di bilancio inserita nella Costituzione dal Parlamento
italiano nel 2012 e la disapplicazione dei trattati europei di impianto
neoliberista, a partire da quello sulla stabilità, coordinamento e governance nell'Unione
economica e monetaria, noto come fiscal compact, che prevede fra l'altro l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore
al 60% del PIL di rientrare entro tale
soglia nel giro di 20 anni ad un ritmo
pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità e il dovere di avere
un deficit pubblico strutturale non superiore allo 0,5% del PIL. Si dovrebbero
altresì modificare le disposizioni che regolamentano il funzionamento della
Banca d'Italia, obbligandola ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti.
Ne deriverebbe il calo degli interessi su BOT e CCT e, dunque, la riduzione del
debito pubblico e la salvaguardia dell'Italia da ulteriori manovre speculative.
In assenza di questi provvedimenti, assisteremo - temo - ad un'ulteriore
contrazione della spesa pubblica e all'accelerazione del processo di privatizzazione
e di smantellamento del welfare state. Altro che espansione!
Si dovrebbe poi procedere
alla ristrutturazione del debito pubblico e proclamare il diritto
all'insolvenza.
9) Si potrebbe, come proposto dagli intellettuali neo-operaisti, istituire una "moneta del comune" intesa
come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività
di riproduzione e come potere d'acquisto da spendere nei servizi
sociali (sanità, istruzione, cura..., ma anche trasporti) offerti all'interno
di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d'uso e
non di scambio.
10) Le politiche di welfare
dovrebbero includere anche l'estensione della durata del congedo di paternità per nascita di un figlio. Il
periodo di astensione obbligatoria dal lavoro dovrebbe essere di pari durata di quello di maternità o,
almeno, di tre mesi da fruire dopo il parto della partner. Il padre del
bambino, proprio come la madre, dovrebbe percepire un'indennità sostitutiva di
importo pari a quello della retribuzione. Il congedo parentale (facoltativo)
dovrebbe essere fruito da entrambi i partner e comportare la corresponsione di
un'indennità pari o di poco inferiore all'importo della retribuzione. Finché
verrà retribuito al 30% del salario, ne fruiranno solo le madri, che, com'è
noto, percepiscono di solito una remunerazione inferiore a quella dei compagni.
11) Si potrebbero sperimentare forme di socializzazione del lavoro domestico e di cura che coinvolgano anche gli uomini e nuove modalità abitative che incentivino la cooperazione nell'attività di
riproduzione
12) Si dovrebbero promuovere
forme di autorganizzazione e di autogestione.
13) Si dovrebbe abrogare la
legge Bossi-Fini che, collegando la concessione del permesso di soggiorno al
possesso di un contratto di lavoro, obbliga gli stranieri ad accettare
qualsiasi impiego ed impone loro l'assoggettamento
alle peggiori forme di sfruttamento. Si dovrebbe applicare il principio della
libera circolazione di tutti in qualsiasi parte del mondo e quello dello ius
soli per i figli degli immigrati nati nel nostro Paese.
14) I titoli di studio
conseguiti dai migranti nel loro Stato dovrebbero essere riconosciuti in
Italia.
15) Agli immigrati dovrebbe
essere garantito il godimento di tutti i diritti sociali assicurati ai
cittadini italiani.