Daniele Giglioli, docente di
letterature comparate all'università di Bergamo, è autore del libello Critica della vittima.
Il suo pamphlet, che attinge
ad un ampio e ormai consolidato repertorio di topoi contro le vittime, si fonda
- duole dirlo- sulla generalizzazione, sull'attribuzione
arbitraria ai soggetti che subiscono violenza di tratti psicologici che non possiedono e sull'incomprensione del
processo di formazione della coscienza e dello status, in genere transitorio, della
vittima. Si espone inoltre al rischio di produrre una sorta di eterogenesi dei fini; potendo
essere recuperato dagli avversari per negare l'esistenza dell'oppressore, anziché
essere interpretato come stimolo alla
formazione di un soggetto in grado di trasformare profondamente la realtà.
Coniugando analisi letteraria
e ricerca genealogica, Giglioli denuncia la passività, l'impotenza, la mancata
assunzione di responsabilità della vittima che si crogiola in uno stato che le
conferisce prestigio e le garantisce ascolto e riconoscimento, ma la imprigiona
al contempo in una condizione ontologica paralizzante di debolezza, mancanza e
risentimento.
Accogliendo la sollecitazione
femminista a partire da sé, per contrastare questa rappresentazione, farò
riferimento alle donne che subiscono atti di violenza maschile.
A mio avviso, è indispensabile
operare una distinzione, per adottare il linguaggio marxista, tra vittima in sé
e vittima per sé, ossia tra condizione
oggettiva e percezione soggettiva del
proprio vissuto, consistendo la prima nel subire atti di sopraffazione e la
seconda nell'acquisire consapevolezza dell'ingiustizia e dell'intollerabilità
di tali azioni. La formazione di tale coscienza presuppone che la vittima si
liberi da un opprimente senso di colpa e
cessi di assumersi responsabilità che non sono sue, ma dell'autore dei
maltrattamenti. In un rapporto di coppia imperniato sulla violenza, la
responsabilità di quanto accade viene infatti dislocata sulla vittima. Il
maltrattante l'accusa di provocarlo, di scatenarne l'aggressività. La donna, a
sua volta, per una serie di motivi che non intendo qui analizzare, interiorizza
un profondo senso di colpa e si accolla il peso delle azioni compiute dall'uomo.
In tal modo sfugge al sentimento di impotenza e si convince che, modificando il proprio comportamento, riuscirà a mutare
anche quello del partner violento. Per sfuggire all'irritazione di quest'ultimo,
si attiva freneticamente, adottando una molteplicità di strategie, vane, perché
i comportamenti del maltrattante non rientrano nella sua responsabilità. Non
può, dunque, prevenirli.
Il comportamento della
vittima in sé è connotato, quindi, dall' iperattività, da un intenso senso di
colpa e dall'assunzione di responsabilità che non le competono: esattamente il
contrario di quanto affermato da Giglioli e da altri autori.
E’ soltanto quando cessa di colpevolizzarsi,
di accollarsi il peso delle azioni altrui e inizia, spesso grazie al sostegno e
ai consigli di qualche parente o amica, a maturare la consapevolezza di essere
vittima di soprusi, che la donna può intraprendere un percorso di uscita dalla violenza.
E' in questo momento che cessa di accettare la condizione di
oppressione e di subordinazione cui è assoggettata e decide di reagire ponendo fine alla relazione.
Percepirsi come vittima è,
dunque, l’indispensabile preludio alla successiva ribellione alla violenza che
si subisce.
Raccontare pubblicamente la
propria esperienza non significa rendere perenne l'identità di vittima, che si
è dissolta nel preciso momento in cui si è cessato di subire violenza. Né significa mantenersi sul piano
dell'emotività o ipostatizzare i fatti in valori, anziché interpretarli
razionalmente. Al contrario! E' il dipanarsi dei racconti delle vittime e delle
ex vittime a consentire a psicologi e
sociologi di spiegare fatti e fenomeni, al fine di prevenirli e combatterli.
Questa analisi può essere
estesa anche ad altre "categorie" di vittime? Penso di sì.
Consideriamo ad esempio
l'uomo indebitato che per Maurizio Lazzarato costituisce la figura paradigmatica del capitalismo
contemporaneo. A connotarlo è un
radicato senso di colpa, una coscienza
infelice e l'assunzione su di sé della responsabilità, dei costi e dei rischi
esternalizzati dallo Stato e dalle imprese. Si tratta, come si può notare,
degli stessi sentimenti e degli stessi caratteri che contraddistinguono la vittima
in sé della violenza maschile. Per
ribellarsi e affrancarsi da questa situazione, è indispensabile che
l'indebitato si riscatti dal senso di colpa e
cessi di assumersi responsabilità che non sono sue, ma dei capitalisti.
Vorrei a questo punto
osservare come le stesse virtù evocate e celebrate da Giglioli, in antitesi ai
difetti attribuiti alle vittime, siano state convertite dalla governamentalità
neoliberista in dispositivi intrapsichici di valorizzazione del capitale. Esaminiamo
ad esempio il concetto di responsabilità.
Disoccupati, precari, insolventi, perdenti sono ritenuti colpevoli di
una sconfitta che riposerebbe su una loro presunta insufficienza e difettività.
Scrivono Pierre Dardot e Christian Laval ne La
nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista:
Se non possiamo cambiare il mondo non ci resta che
inventare noi stessi. [...] Dal momento che il soggetto è pienamente cosciente
e padrone delle proprie scelte, è anche pienamente responsabile di quello che
gli capita: <<l'irresponsabilità>> di un mondo divenuto
ingovernabile per la sua stessa caratteristica di globalità ha come controparte
l'infinita responsabilità dell'individuo per il proprio destino, per la propria
capacità di avere successo ed essere felice. Non accollarsi il passato,
coltivare previsioni positive, intrattenere relazioni efficaci con gli altri:
la gestione neoliberista di se stessi consiste nel fabbricarsi un io
efficiente, che esige sempre di più da se stesso [...] I problemi economici
sono considerati come problemi di organizzazione e questi ultimi si riconducono
a loro volta a problemi psichici legati a un'insufficiente padronanza di sé e
del proprio rapporto con gli altri. La fonte dell'inefficienza ce la portiamo
dentro, non può più venire da un'autorità esterna. [...] La costrizione
economica e finanziaria si trasforma così in autocostrizione e
autocolpevolizzazione, perché siamo i soli responsabili di quello che
succede". (pp.436-437)
Le stesse considerazioni si
possono applicare ai concetti di attività, dinamismo, forza, costante trasformazione e rimodellamento di sé ecc.
Il libello di Giglioli si
presta ad interpretazioni fuorvianti da parte di chi approfitta della critica
della vittima per occultare la presenza del colpevole e dell'oppressore, per
rimuovere la questione stessa dei rapporti di dominio e di subordinazione.
Può, inoltre, essere interpretato come l'ennesima forma di
colpevolizzazione della vittima che rischia di paralizzarla, di imprigionarla
davvero, in quanto sopraffatta da un sentimento di vergogna, in una condizione
di eterna violenza e sofferenza. E a questo proposito, per concludere, ricordo
che anche la stigmatizzazione dei "perdenti", come notano acutamente
Dardot e Laval, è costitutiva della razionalità neoliberista.
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