Nel saggio Discours féministes et architecture/recherche urbaine (avec des exemples d'Allemagne),
incluso nel volume collettaneo Femmes et villes (Donne e città), a cura di Sylvette Denèfle,
pubblicato nel 2004, Christine Bauhardt, docente di
architettura all'Università tecnica di Berlino, osserva come il genere
costituisca un fattore che struttura lo spazio. Le architette e le urbaniste
femministe sono in grado di dimostrare come l'organizzazione
dello spazio sia fondata sull'occultamento del lavoro delle donne e
sulla scarsa considerazione di cui godono alcune classi di età (i
giovani e gli anziani). Si consideri, infatti, l'inadeguato sviluppo,
l'inefficienza e la carente manutenzione della rete del trasporto urbano, i cui utenti
appartengono generalmente alle categorie sopracitate.
Architetti ed arredatori
non influenzati dal femminismo, secondo Christine Bauhardt, ostacolano,
inoltre, lo svolgimento del lavoro domestico e lo celano allo sguardo,
riducendo drasticamente le dimensioni della cucina.
In Germania, il lavoro
domestico, anziché essere occultato o presupposto in modo implicito, è stato
riconosciuto da architette e arredatrici femministe come elemento fondamentale
di organizzazione dello spazio ed è
stato valorizzato attraverso la collocazione in posizione centrale, anche negli
alloggi popolari, della cucina e contemporaneamente della stanza individuale:
una per ciascun membro della famiglia. La prima, spaziosa e comoda, è concepita
come il luogo ove si svolge una consistente frazione del lavoro della casalinga,
ma anche come uno spazio di
convivialità, di incontro tra i membri della famiglia e di educazione
dei figli.
Complementare alla cucina è
la "stanza tutta per sé", già rivendicata
da Virginia Woolf, un'oasi di pace, di riposo e
di solitudine.
Non si tratta, osserva Christine
Bauhardt, di confinare le donne in casa e di accollare loro tutto il lavoro
domestico, quanto piuttosto di favorire la cooperazione dei membri della famiglia allo svolgimento di
questa attività e, al contempo, offrire
a ciascuno di loro uno spazio individuale di riposo e di loisir all'interno
dell'abitazione.
In Italia, come rivela un
bell'articolo del 2001 di Giovanna Cosenza: Il sofà e la cucina ,
nelle abitazioni degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso erano molto diffusi cucinini e cucinotti:
ambienti ridotti, minimali, poco confortevoli e molto scomodi.
La casa di mia nonna, costruita nel 1963, è stata progettata in base a questi
criteri: il cucinino è separato da una porta a soffietto dalla sala da pranzo.
L'organizzazione dello spazio pare effettivamente finalizzata all'occultamento e alla svalutazione del
lavoro domestico e, soprattutto, al suo affidamento a una sola persona: la
donna, naturalmente. Nei cucinini, infatti, può circolare, con poco agio
peraltro, una sola persona. Lo spazio consacrato alla convivialità e alla
condivisione dei pasti che compaiono in tavola quasi si fossero autoprodotti per magia è dislocato
in una sala separata dal luogo della loro preparazione, del lavaggio dei
piatti, ecc.
L'invisibilità delle mansioni
domestiche come attività che concorrono alla produzione della forza lavoro,
estendendo e, al contempo, occultando, in quanto non remunerate, lo sfruttamento
capitalistico all'interno delle case è denunciato negli anni Settanta dalle esponenti di Lotta
femminista.
Scriveva nel 1972 Mariarosa Dalla Costa in Potere femminile e sovversione sociale
(p.42):
A partire da Marx è stato chiaro che il capitale comanda
e si sviluppa attraverso il salario. Il fondamento della società capitalistica
è il lavoratore salariato e il di lui o di lei diretto sfruttamento. Non è
stato altrettanto chiaro, né è stato mai assunto dalle organizzazioni del
movimento operaio che proprio attraverso il salario viene organizzato lo
sfruttamento del lavoratore non salariato. E che semmai il suo sfruttamento è
stato tanto più efficace proprio in quanto nascosto, mistificato dalla mancanza
di un salario. [...] Quindi il lavoro delle donne appariva una prestazione di
servizi personali al di fuori del capitale.
Questo brano è riportato in
esergo a Contropiano delle cucine,
redatto nel 1975, in collaborazione con Nicole Fox, da Silvia Federici, una
delle più prestigiose esponenti della sopracitata corrente femminista. Il
saggio è incluso nell'importante raccolta Il
punto zero della rivoluzione, pubblicata di recente da Ombre Corte, curata
e tradotta da Anna Curcio. Il titolo prospetta la possibilità di contrastare il
capitale (elaborare un piano che si
contrapponga al suo ) nelle case, in quanto il lavoro di produzione e di
riproduzione della forza lavoro che vi si effettua è già inserito nel circuito
della valorizzazione capitalista. Questo contropiano è concepito come lotta
contro il lavoro domestico, il cui primo passo deve consistere nell'imporne
allo Stato, incarnazione del capitale
collettivo, la remunerazione, in quanto il salario si è storicamente
configurato come il principale terreno di scontro tra capitalisti e operai, che
sfruttano questa leva per accrescere il proprio potere e ridurre l'orario e il ritmo della produzione.
La rivendicazione di un
salario è percepita, quindi, come una modalità di lotta contro le mansioni
domestiche in grado di proiettare le
donne fuori dalle cucine e dalle camere da letto, rendendo manifesto, fra
l'altro, il fatto che il personale è politico.
Le donne proletarie escono dalle cucine, fascisti,
padroni per voi sarà la fine,
recitava uno slogan dei cortei femministi degli anni Settanta [Paola Agosti, Una fotografa degli anni Settanta ricorda il
movimento femminista, in AA.VV., Il
gesto femminista, p.47]
Fine interprete del
femminismo marxista degli anni Settanta, Anna Curcio scrive, a sua volta, in Un gesto scabroso, saggio inserito nel
libro Il gesto femminista (p.94):
Svelato l'arcano della gratuità della riproduzione, le
donne si affrettano a sottrarsi a quel regime e rifiutano il lavoro che il
capitale comanda loro. [...] Nel rifiutare il lavoro di riproduzione, le donne
interrompono lo spazio dell'accumulazione fondato sulla subordinazione e lo
sfruttamento del lavoro domestico e di cura e, così facendo, costringono il
capitale a ripensare l'intera organizzazione del lavoro.
Per tornare al tema da cui
sono partita, è possibile, quindi, che le ridotte dimensioni delle cucine degli
anni Sessanta e Settanta, spesso non controbilanciate dalla presenza delle sale da pranzo, siano determinate da fattori diversi dal
disconoscimento del lavoro domestico e cioè, oltre che dalla diffusione dei
surgelati e dei cibi pronti, dalla critica dell'attività di riproduzione, dalla
contestazione rispettivamente dell'autorità maritale e di quella paterna e dall'aspirazione
al superamento della famiglia patriarcale e nucleare che caratterizzano il
movimento femminista e quello giovanile antisistemico.
Non è casuale, allora, che la
cucina in Italia acquisti importanza e si espanda fino ad inglobare altri
ambienti e ad acquisire un carattere multifunzionale proprio a partire dagli
anni Ottanta, il decennio del riflusso, del ritorno al privato.
Che cosa proponevano Lotta
femminista e, in seguito, i Comitati per il salario al lavoro domestico? La remunerazione, ma anche la socializzazione
dell'attività di riproduzione, idea rilanciata da Silvia Federici in Femminismo e politica del comune al tempo
della cosiddetta accumulazione originaria, l'ultimo saggio della raccolta Il punto zero della rivoluzione, mentre
alla sperimentazione di forme di commonfare fanno riferimento Beatrice Busi e
Simona De Simoni nel bell'articolo pubblicato sul n.35 di alfabeta2, intitolato
Soggettività insolventi .
Si tratta, del resto, di riproporre un'idea già presente nel socialismo utopistico e ripresa più tardi dal comunismo.
Il titolo del mio articolo è
estrapolato da un testo di Alexandra Kollontai,
che auspicava il superamento del lavoro domestico privato
che sarebbe stato sostituito da quello collettivo, anche se affidato esclusivamente alle donne, e
propugnava la socializzazione dell'educazione dei figli.
Alexandra Kollontai era favorevole
anche alla costruzione e alla diffusione
delle case comuni come soluzione alternativa agli appartamenti privati.
La trasformazione della vita quotidiana e, di conseguenza, delle
condizioni di esistenza della donna fu, allo stesso modo, influenzata dalle
nuove condizioni di abitazione che la repubblica dei lavoratori instaurò.
L'appartamento comunitario - la casa comune per famiglie e soprattutto per
persone sole - è ampiamente diffuso da noi. In nessun paese ci sono tanti
focolari comunitari come nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a
installarsi in una casa comune. Non per «principio», evidentemente, non per
convinzione, come facevano gli utopisti della prima metà del diciannovesimo
secolo, i quali, seguendo i precetti di Fourier, organizzavano dei «falansteri»
artificiali e non suscettibili di sviluppo, ma semplicemente perché è molto più
facile e più comodo vivere in una casa comune. [..] Le case comuni sono sempre
meglio attrezzate degli appartamenti privati; luce e combustibile vi sono
assicurati. Non è raro che vi si trovi una riserva di acqua calda, una cucina
centrale. La pulizia viene fatta da lavoratrici di professione. In talune case
c'è una lavanderia centrale, in altre un nido o un giardino d'infanzia. [...] Sono
soprattutto le donne - tutte quelle che sono costrette a conciliare il lavoro
con la famiglia - che hanno pienamente coscienza dei vantaggi del focolare
comunitario. Per queste donne lavoratrici la casa comune è il massimo beneficio, è la salvezza. [...]
Questa modalità
abitativa, variamente articolata e
declinata, è stata rilanciata e riattualizzata dalle comuni hippy, dagli
ecovillaggi, dagli squat (anche femministi) che presuppongono la condivisione di
un progetto comune di vita.
Una soluzione
intermedia è rappresentata dal cohousing, una forma di vicinato elettivo in cui
coesistono abitazioni private, che consentono di tutelare la privacy della
famiglia, e servizi comuni, che
permettono di coltivare relazioni intense, di riscoprire valori come la
socialità, la cooperazione e la solidarietà.
Sperimentate e
promosse in Danimarca nel 1972 da esponenti del movimento studentesco e da
persone che avevano vissuto in comuni che costituivano un' alternativa radicale
alla proprietà privata e alla famiglia tradizionale, diffuse poi in Svezia,
Paese le cui strutture di cohousing attingono ispirazione dal femminismo, come
del resto in Olanda e sono in gran parte di proprietà delle amministrazioni
comunali, affittate a poco prezzo ai residenti, le coabitazioni presentano
quattro caratteristiche comuni.
1) La
partecipazione. I residenti organizzano e concorrono ai processi di
progettazione delle abitazioni e degli spazi comuni e assumono le decisioni in
modo collegiale.
2) La
progettazione è intenzionale e funzionale
all'instaurazione di intense
relazioni sociali e alla costituzione di un forte senso di appartenenza alla
comunità.
3) La presenza
imprescindibile di servizi e spazi comuni che integrano quelli privati.
4) La gestione
diretta e collegiale della struttura da parte dei residenti.
Negli ultimi tempi
si sta diffondendo il cohousing per gli anziani che dovrebbe soddisfare il loro
desiderio di relazioni sociali significative e il loro bisogno di sostegno in
situazioni di vulnerabilità e di ridotta autonomia.
Anche senza prospettare la coabitazione, lo squat o
l'ecovillaggio come soluzioni generali della questione abitativa, si potrebbero proporre esperimenti di socializzazione
almeno parziale delle incombenze domestiche e del lavoro di cura da realizzare all'interno del progetto di istituzione
della "moneta del comune". Di cosa si tratta?
Il 21 e il 22
giugno si è svolto a Milano un Convegno sul tema, cui hanno partecipato alcuni
fra i più brillanti intellettuali post-operaisti. La sintesi degli interventi, corredata da un ampio
dossier, è riportata sul sito di Effimera. Si tratterebbe, in sostanza, di coniare una moneta, concepita come strumento di
contropotere finanziario, dunque, non finalizzata né all'accumulazione, né alla
fluidificazione della circolazione delle merci, ma intesa come riconoscimento e
remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come
potere d'acquisto da spendere nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura..., ma anche trasporti) offerti
all'interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di
valori d'uso e non di scambio. Questi servizi - mi chiedo- potrebbero
includere, accanto ad attività di cura, anche
lavori domestici? (pulizia della casa, stiro, ecc.)? E' una domanda
priva di senso?
Che ne pensate?
E' doveroso, però,
constatare come questa proposta lasci comunque irrisolta la questione dello
svolgimento da parte degli uomini di queste attività. Come convincerli a effettuarle?
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