giovedì 10 luglio 2014

La "separazione della cucina dal matrimonio": ecco una grande riforma. Dal cucinino al Contropiano delle cucine alle cucine...del comune




Nel saggio Discours féministes et architecture/recherche urbaine (avec des exemples d'Allemagne), incluso  nel volume collettaneo  Femmes et villes (Donne e città),  a cura di Sylvette Denèfle, pubblicato nel 2004, Christine Bauhardt, docente di architettura all'Università tecnica di Berlino, osserva come il genere costituisca un fattore che struttura lo spazio. Le architette e le urbaniste femministe sono in grado di dimostrare come l'organizzazione dello spazio sia fondata sull'occultamento del lavoro delle donne  e  sulla scarsa considerazione di cui godono alcune classi di età (i giovani e gli anziani). Si consideri, infatti, l'inadeguato sviluppo, l'inefficienza e la carente manutenzione  della rete del trasporto urbano, i cui utenti appartengono generalmente alle categorie sopracitate.
Architetti ed arredatori non influenzati dal femminismo, secondo Christine Bauhardt, ostacolano, inoltre, lo svolgimento del lavoro domestico e lo celano allo sguardo, riducendo drasticamente le dimensioni della cucina.
In Germania, il lavoro domestico, anziché essere occultato o presupposto in modo implicito, è stato riconosciuto da architette e arredatrici femministe come elemento fondamentale di organizzazione dello spazio  ed è stato valorizzato attraverso la collocazione in posizione centrale, anche negli alloggi popolari, della cucina e contemporaneamente della stanza individuale: una per ciascun membro della famiglia. La prima, spaziosa e comoda, è concepita come il luogo ove si svolge una consistente frazione del lavoro della casalinga, ma anche come uno spazio di  convivialità, di incontro tra i membri della famiglia e di educazione dei figli.
Complementare alla cucina è la "stanza tutta per sé",  già rivendicata da Virginia Woolf, un'oasi di pace, di riposo e  di solitudine.
Non si tratta, osserva Christine Bauhardt, di confinare le donne in casa e di accollare loro tutto il lavoro domestico, quanto piuttosto di favorire la cooperazione  dei membri della famiglia allo svolgimento di questa attività  e, al contempo, offrire a ciascuno di loro uno spazio individuale di riposo e di loisir all'interno dell'abitazione.
In Italia, come rivela un bell'articolo del 2001 di Giovanna Cosenza: Il sofà e la cucina , nelle abitazioni degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso  erano molto diffusi cucinini e cucinotti: ambienti ridotti, minimali,  poco confortevoli e molto scomodi. La casa di mia nonna, costruita nel 1963, è stata progettata in base a questi criteri: il cucinino è separato da una porta a soffietto dalla sala da pranzo. L'organizzazione dello spazio pare effettivamente finalizzata  all'occultamento e alla svalutazione del lavoro domestico e, soprattutto, al suo affidamento a una sola persona: la donna, naturalmente. Nei cucinini, infatti, può circolare, con poco agio peraltro, una sola persona. Lo spazio consacrato alla convivialità e alla condivisione dei pasti che compaiono in tavola quasi  si fossero autoprodotti per magia è dislocato in una sala separata dal luogo della loro preparazione, del lavaggio dei piatti,  ecc.
L'invisibilità delle mansioni domestiche come attività che concorrono alla produzione della forza lavoro, estendendo e, al contempo, occultando, in quanto non remunerate, lo sfruttamento capitalistico all'interno delle case è denunciato   negli anni Settanta dalle esponenti di Lotta femminista.
Scriveva  nel 1972 Mariarosa Dalla Costa in Potere femminile e sovversione sociale (p.42):
 
A partire da Marx è stato chiaro che il capitale comanda e si sviluppa attraverso il salario. Il fondamento della società capitalistica è il lavoratore salariato e il di lui o di lei diretto sfruttamento. Non è stato altrettanto chiaro, né è stato mai assunto dalle organizzazioni del movimento operaio che proprio attraverso il salario viene organizzato lo sfruttamento del lavoratore non salariato. E che semmai il suo sfruttamento è stato tanto più efficace proprio in quanto nascosto, mistificato dalla mancanza di un salario. [...] Quindi il lavoro delle donne appariva una prestazione di servizi personali al di fuori del capitale.
 
Questo brano è riportato in esergo a Contropiano delle cucine, redatto nel 1975, in collaborazione con Nicole Fox, da Silvia Federici, una delle più prestigiose esponenti della sopracitata corrente femminista. Il saggio è incluso nell'importante raccolta Il punto zero della rivoluzione, pubblicata di recente da Ombre Corte, curata e tradotta da Anna Curcio. Il titolo prospetta la possibilità di contrastare il capitale  (elaborare un piano che si contrapponga al suo ) nelle case, in quanto il lavoro di produzione e di riproduzione della forza lavoro che vi si effettua è già inserito nel circuito della valorizzazione capitalista. Questo contropiano è concepito come lotta contro il lavoro domestico, il cui primo passo deve consistere nell'imporne allo Stato,  incarnazione del capitale collettivo, la remunerazione, in quanto il salario si è storicamente configurato come il principale terreno di scontro tra capitalisti e operai, che sfruttano questa leva per accrescere il proprio potere e ridurre  l'orario e il ritmo della produzione.
La rivendicazione di un salario è percepita, quindi, come una modalità di lotta contro le mansioni domestiche  in grado di proiettare le donne fuori dalle cucine e dalle camere da letto, rendendo manifesto, fra l'altro, il fatto che il personale è politico.
 
Le donne proletarie escono dalle cucine, fascisti, padroni per voi sarà la fine, recitava uno slogan dei cortei femministi degli anni Settanta [Paola Agosti, Una fotografa degli anni Settanta ricorda il movimento femminista, in AA.VV., Il gesto femminista, p.47]
 
Fine interprete del femminismo marxista degli anni Settanta, Anna Curcio scrive, a sua volta, in Un gesto scabroso, saggio inserito nel libro Il gesto femminista (p.94):
 
Svelato l'arcano della gratuità della riproduzione, le donne si affrettano a sottrarsi a quel regime e rifiutano il lavoro che il capitale comanda loro. [...] Nel rifiutare il lavoro di riproduzione, le donne interrompono lo spazio dell'accumulazione fondato sulla subordinazione e lo sfruttamento del lavoro domestico e di cura e, così facendo, costringono il capitale a ripensare l'intera organizzazione del lavoro.
 
Per tornare al tema da cui sono partita, è possibile, quindi, che le ridotte dimensioni delle cucine degli anni Sessanta e Settanta, spesso non controbilanciate dalla presenza  delle sale da pranzo,  siano determinate da fattori diversi dal disconoscimento del lavoro domestico e cioè, oltre che dalla diffusione dei surgelati e dei cibi pronti, dalla critica dell'attività di riproduzione, dalla contestazione rispettivamente dell'autorità maritale e di quella paterna e dall'aspirazione al superamento della famiglia patriarcale e nucleare che caratterizzano il movimento femminista e quello giovanile antisistemico.
Non è casuale, allora, che la cucina in Italia acquisti importanza e si espanda fino ad inglobare altri ambienti e ad acquisire un carattere multifunzionale proprio a partire dagli anni Ottanta, il decennio del riflusso, del ritorno al privato.
Che cosa proponevano Lotta femminista e, in seguito, i Comitati per il salario al lavoro domestico?   La remunerazione, ma anche la socializzazione dell'attività di riproduzione, idea rilanciata da Silvia Federici in Femminismo e politica del comune al tempo della cosiddetta accumulazione originaria, l'ultimo saggio della raccolta Il punto zero della rivoluzione, mentre alla sperimentazione di forme di commonfare fanno riferimento Beatrice Busi e Simona De Simoni nel bell'articolo pubblicato sul n.35 di alfabeta2, intitolato Soggettività insolventi .
Si tratta, del resto, di  riproporre un'idea già presente nel socialismo utopistico e ripresa più tardi dal comunismo.
Il titolo del mio articolo è estrapolato da un testo di Alexandra Kollontai, che auspicava  il superamento del lavoro domestico privato che sarebbe stato sostituito da quello collettivo, anche se affidato esclusivamente alle donne, e propugnava la socializzazione dell'educazione dei figli. Alexandra Kollontai   era favorevole anche alla  costruzione e alla diffusione delle case comuni come soluzione alternativa agli appartamenti privati.
 
La trasformazione della vita quotidiana e, di conseguenza, delle condizioni di esistenza della donna fu, allo stesso modo, influenzata dalle nuove condizioni di abitazione che la repubblica dei lavoratori instaurò. L'appartamento comunitario - la casa comune per famiglie e soprattutto per persone sole - è ampiamente diffuso da noi. In nessun paese ci sono tanti focolari comunitari come nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a installarsi in una casa comune. Non per «principio», evidentemente, non per convinzione, come facevano gli utopisti della prima metà del diciannovesimo secolo, i quali, seguendo i precetti di Fourier, organizzavano dei «falansteri» artificiali e non suscettibili di sviluppo, ma semplicemente perché è molto più facile e più comodo vivere in una casa comune. [..] Le case comuni sono sempre meglio attrezzate degli appartamenti privati; luce e combustibile vi sono assicurati. Non è raro che vi si trovi una riserva di acqua calda, una cucina centrale. La pulizia viene fatta da lavoratrici di professione. In talune case c'è una lavanderia centrale, in altre un nido o un giardino d'infanzia. [...] Sono soprattutto le donne - tutte quelle che sono costrette a conciliare il lavoro con la famiglia - che hanno pienamente coscienza dei vantaggi del focolare comunitario. Per queste donne lavoratrici la casa comune è il massimo beneficio, è la salvezza. [...]
 
Questa modalità abitativa,  variamente articolata e declinata, è stata rilanciata e riattualizzata dalle comuni hippy, dagli ecovillaggi, dagli squat (anche femministi) che presuppongono la condivisione di un progetto comune di vita.
Una soluzione intermedia è rappresentata dal cohousing,   una forma di vicinato elettivo in cui coesistono abitazioni private, che consentono di tutelare la privacy della famiglia,  e servizi comuni, che permettono di coltivare relazioni intense, di riscoprire valori come la socialità, la cooperazione e la solidarietà.
Sperimentate e promosse in Danimarca nel 1972 da esponenti del movimento studentesco e da persone che avevano vissuto in comuni che costituivano un' alternativa radicale alla proprietà privata e alla famiglia tradizionale, diffuse poi in Svezia, Paese le cui strutture di cohousing attingono ispirazione dal femminismo, come del resto in Olanda e sono in gran parte di proprietà delle amministrazioni comunali, affittate a poco prezzo ai residenti, le coabitazioni presentano quattro caratteristiche comuni.
1) La partecipazione. I residenti organizzano e concorrono ai processi di progettazione delle abitazioni e degli spazi comuni e assumono le decisioni in modo collegiale.
2) La progettazione è intenzionale e funzionale  all'instaurazione  di intense relazioni sociali e alla costituzione di un forte senso di appartenenza alla comunità.
3) La presenza imprescindibile di servizi e spazi comuni che integrano quelli privati.
4) La gestione diretta e collegiale della struttura da parte dei residenti.
 
Negli ultimi tempi si sta diffondendo il cohousing per gli anziani che dovrebbe soddisfare il loro desiderio di relazioni sociali significative e il loro bisogno di sostegno in situazioni di vulnerabilità e di ridotta autonomia.
Anche senza  prospettare la coabitazione, lo squat o l'ecovillaggio come soluzioni generali della questione abitativa, si potrebbero  proporre esperimenti di socializzazione almeno parziale delle incombenze domestiche e del lavoro di cura  da realizzare all'interno del progetto di istituzione della "moneta del comune". Di cosa si tratta?
Il 21 e il 22 giugno si è svolto a Milano un Convegno sul tema, cui hanno partecipato alcuni fra i più brillanti intellettuali post-operaisti. La sintesi  degli interventi, corredata da un ampio dossier, è riportata sul sito di Effimera. Si tratterebbe, in sostanza, di coniare una moneta, concepita come strumento di contropotere finanziario, dunque, non finalizzata né all'accumulazione, né alla fluidificazione della circolazione delle merci, ma intesa come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come potere d'acquisto da spendere  nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura..., ma anche trasporti) offerti all'interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d'uso e non di scambio. Questi servizi - mi chiedo- potrebbero includere, accanto ad attività di cura, anche   lavori domestici? (pulizia della casa, stiro, ecc.)? E' una domanda priva di senso?
Che ne pensate?
E' doveroso, però, constatare come questa proposta lasci comunque irrisolta la questione dello svolgimento da parte degli uomini di queste attività. Come  convincerli a  effettuarle?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

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