giovedì 31 luglio 2014

Chi sono le donne che affermano di non aver bisogno del femminismo?




Nei giorni scorsi è stata pubblicata dai quotidiani "Repubblica" e il "Corriere della Sera" una galleria fotografica di ragazze e donne che sostengono di non aver bisogno del femminismo.
Etre féministe aujourd'hui ? Représentations associées aux féministes et ambiguïtés del'étiquette féministe   un'assai stimolante tesi, redatta nel 2010, alla conclusione di un master in studi di genere,  da Zoé Rüesch, si sforza di individuare ed enucleare i motivi che inducono molte donne a percepire il termine "femminista"  come stigmatizzante e a respingere un movimento di cui pure  mostrano di aver recepito, almeno in minima parte, i valori.
Le immagini che molte donne associano  al femminismo sono negative a causa, in primo luogo, dell'assimilazione  della retorica antifemminista che concorre a minarne le rivendicazioni, a stigmatizzare i comportamenti associati al movimento e a  screditare qualsiasi presa di posizione  favorevole all'uguaglianza di diritti e di condizione economica, sociale, giuridica, culturale e simbolica di uomini e donne.
L'irruzione sulla scena pubblica e la visibilità del femminismo hanno sempre prodotto un contrattacco più o meno forte, ossia una reazione di demonizzazione del movimento fondata sul ricorso ad una serie di concetti enunciati da Christine Bard in Un siècle d’antiféminisme e mutuati dal libro Retoriche dell'intransigenza di Albert O. Hirschman, che analizza i discorsi reazionari, i quali  ricorrono abbondantemente alle tesi della perversità, della futilità e della messa a repentaglio.
Applicata all'antifemminismo, la prima  teoria presuppone  che la liberazione delle donne promossa dal femminismo sia destinata a convertirsi  nell'assoggettamento degli uomini, ottenuta attraverso lo scatenamento della "guerra fra i sessi". Sarebbe la misandria a muovere le femministe, interessate non tanto a stabilire l'uguaglianza di genere, ma ad instaurare il dominio   delle donne sugli uomini.
La tesi della futilità insiste invece sull'immutabilità delle strutture sociali. Secondo tale prospettiva, rientrerebbe nell'ordine naturale delle cose l'assegnazione di funzioni e ruoli diversi agli individui di ciascun sesso e la loro collocazione in una posizione differente, sicché la  battaglia femminista volta a modificare  l'assetto sociale e i rapporti di genere si rivelerebbe essere  un'inutile perdita di tempo.
La teoria della messa a repentaglio, infine, sottolinea il costo simbolico elevato che i mutamenti indotti dal femminismo potrebbero comportare. Gli antifemministi invitano anche ad indirizzare la lotta verso altre cause ritenute molto più rilevanti.
Francine Descarries,  nel saggio L’antiféminisme ordinaire,  descrive, a sua volta, tre procedure retoriche frequentemente adottate dai maschilisti: la deformazione, le semplificazioni arbitrarie e il vittimismo. La prima consiste nella disinformazione che produce l'illusione nostalgica dei bei tempi andati, nei quali la mente delle "vere donne" non era obnubilata dall'ideale dell'uguaglianza di genere. Le discriminazioni sono presentate come casi individuali, conseguenti alla libera scelta di ciascuno, un'interpretazione che rientra anche nella categoria delle semplificazioni arbitrarie che disconoscono il ruolo condizionante delle strutture sociali.  Un' altra distorsione è rappresentata dall'affermazione che l'uguaglianza tra uomini e donne sia ormai  realizzata, sicché le rivendicazioni femministe vengono reinterpretate come azioni volte, in realtà, ad instaurare  la dominazione femminile. Il vittimismo, infine, consta nella raffigurazione degli uomini come vittime dei mutamenti generati dal femminismo che ne avrebbe prodotto la  femminilizzazione o, avrebbe, quanto meno, innescato una devastante crisi della maschilità.  
Un'altra convinzione antifemminista, osserva Zoé Rüesch, sulla scia di Rosende, Perrin, Roux e Gillioz, autrici dell'articolo Sursaut antiféministe dans les salons parisiens (Rigurgito antifemminista nei salotti parigini), è costituita dalla critica al cosiddetto "femminismo vittimista", che descriverebbe - si sostiene- tutte le donne come vittime e tutti gli uomini come carnefici. Tale valutazione  assume, in realtà, la connotazione di un'evidente semplificazione arbitraria e caricaturale che concorre a sminuire la gravità della violenza maschile sulle donne. Si tratta della posizione notoriamente assunta da Marcela Iacub, Hervé Le Bras ed Elisabeth Badinter, che, in Francia, sono annoverati fra gli antifemministi.
A rafforzare queste convinzioni contribuisce la letteratura "psicologica" popolare, il cui modello è rappresentato dal libro Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere di John Gray, che si prefigge, teoricamente, di offrire un sostegno alle coppie in crisi, ma che, in realtà, si rivolge esclusivamente alle donne, sollecitate a rinunciare  a qualsiasi anelito di indipendenza e di emancipazione per consacrarsi alla missione di custodire e preservare l'armonia dei rapporti affettivi. La valorizzazione delle competenze relazionali delle donne, in queste opere, svolge la precipua funzione di convogliare le loro aspirazioni e i loro desideri di realizzazione nella sfera domestica. Le femministe, in questa prospettiva, sarebbero responsabili della disgregazione della coppia e della famiglia e del perseguimento di interessi tanto egoisti quanto nefasti per il mantenimento del benessere collettivo.
Se queste sono, a grandi linee, le credenze propagate dall'antifemminismo, occorre chiedersi perché esse siano così frequentemente interiorizzate dalle donne e, prima ancora, perché queste ultime dichiarino spesso la propria estraneità al femminismo.
La prima ragione va individuata nel fatto che il neoliberismo valorizza il mito dell'unicità, della singolarità dell'individuo  pienamente autonomo, concorrendo, così, a occultare il legame sociale, l'interdipendenza di soggetti accomunati da interessi, valori, caratteri. L'affermazione di questa ideologia  rappresenta un ostacolo alla costituzione e al consolidamento dei movimenti, che sono, appunto, raggruppamenti di persone che condividono esperienze e condizioni di vita e perseguono i medesimi obiettivi. L'individualismo è naturalmente in contrasto con l'espressione di rivendicazioni collettive.
Proclamarsi femministe oggi significa non solo voler sovvertire il sistema patriarcale, ma anche rimettere in discussione alcuni dei valori che strutturano la società neoliberista: l'autonomia, intesa come totale indipendenza dagli altri,  l'individualismo e l'attribuzione ai singoli della responsabilità delle ingiustizie che subiscono,  quasi che le persone non fossero inserite in un fitto tessuto di rapporti e le loro opzioni di vita non fossero condizionate e limitate dal contesto, dalle strutture sociali, dal modo di produzione, dalle norme culturali vigenti.
 
Dichiararsi femministe, osserva amaramente l'autrice della tesi, sembra assolutamente insensato in un contesto sociale nel quale le difficoltà e le diseguaglianze sono presentate come il prodotto di "scelte" o il risultato di percezioni individuali e in cui gli ostacoli e i limiti sembrano sconnessi dai processi collettivi e svincolati da concetti quali il dominio maschile o la società patriarcale.
 
Un'altra ragione della scarsa adesione delle donne al movimento femminista è da rintracciare nella diffusione del post-femminismo che, presupponendo ormai realizzata la parità di diritti e l'uguaglianza di condizioni fra uomini e donne, prospetta come reale la possibilità di scegliere  il modello di vita più consono alle proprie esigenze  fra un'ampia gamma di opzioni  supposte accessibili a tutte alle medesime condizioni. Questa concezione comporta quindi la negazione dell'esistenza di qualsiasi forma di condizionamento sociale, depoliticizza le scelte individuali e, soprattutto, le presenta come la fonte di eventuali diseguaglianze che sarebbero il prodotto di decisioni assunte liberamente dalle singole donne. L'ideologia dell'ormai avvenuto compimento dell'uguaglianza di genere e l'attribuzione delle discriminazioni alla responsabilità individuale impedisce di lottare per sopprimere il sistema patriarcale e la divisione sessuale del lavoro, giacché ne occulta l'esistenza.
All'illusione  di disporre di una gamma infinita di opzioni tra cui scegliere corrisponde l'ingiunzione sociale a conformarsi alla norma della "perfetta femminilità", concepita come incompatibile con i valori associati alle femministe.
Gli ideali di autonomia e di autorealizzazione non si rivelano incompatibili con l'eteronormatività, che induce le donne ad assumere un aspetto e un comportamento fortemente sessualizzato e genderizzato per  apparire seducenti e  rafforza il mito della complementarietà dei sessi, a ciascuno dei quali vengono attribuiti determinati ruoli e caratteri.  Se l'inserimento in campi tradizionalmente concepiti come maschili risulta socialmente, almeno in parte, accettabile, è tuttavia necessario, per non turbare eccessivamente l'ordine sessuale, che ciò si abbini alla desiderabilità, alla capacità di sedurre. Ora, si suppone che la femminista non aspiri ad accendere il desiderio eterosessuale e respinga l'eteronormatività. Nell'immaginario collettivo, ella incarna l'ideale opposto a quello della donna seducente: non si trucca, non si depila, non indossa gonne e abiti appariscenti e scollati, ma solo pantaloni, non calza scarpe con i tacchi alti, ha i capelli corti.  Inoltre, sempre secondo topoi ampiamente diffusi, non possiede la tenerezza, la dolcezza, l'oblatività, la discrezione, la bellezza, la fragilità, l'emotività, la capacità di ascolto generalmente attribuite e imposte alle donne.
Gli stereotipi associati alle femministe fanno, poi, riferimento all'identità sessuale, al grado di integrazione sociale e al carattere.
Per il fatto di riconoscere la natura socialmente e culturalmente costruita del genere e, soprattutto,  di rimettere in discussione i ruoli attribuiti a ciascun sesso, le femministe   vengono considerate devianti, una valutazione estesa, conseguentemente, al loro orientamento sessuale. Lesbiche (termine al quale viene, in base ad un radicato atteggiamento omofobico, attribuita una connotazione negativa)  o misandriche, sessualmente inattive o, al contrario, iperattive, in ogni caso "degeneri": così appaiono nell'immaginario collettivo.
Esse sono raffigurate, poi, come affette da solitudine e votate alla marginalità sociale. Si ritiene che una donna sia completa solo se  ha intrecciato una solida relazione sentimentale con un uomo e, poiché le rappresentazioni sociali dei generi sono rigidamente dicotomiche, per essere completa una donna deve essere il complemento dell'uomo. Dal momento che contesta questo ruolo,  la femminista viene percepita come misandrica e deviante.
La solitudine è riferita anche alla presunta assenza di figli, connessa al fatto che le femministe  hanno lottato per ottenere  che la sessualità fosse disgiunta dalla riproduzione e per affermare l'idea della maternità come scelta, piuttosto che come obbligo sociale.
Esse vengono poi descritte come estremiste, "nazifemministe", convinte della superiorità delle donne. Secondo tale concezione, poiché l'uguaglianza di genere è già stata realizzata, la loro autentica, benché occulta, aspirazione  sarebbe in realtà quella di assoggettare gli uomini. Da qui l'accusa di essere misandriche e violente.
Viene loro imputato un atteggiamento estremistico anche perché, per molti, non sono tanto le discriminazioni a costituire un problema, quanto piuttosto la loro enunciazione e denuncia da parte delle femministe. E' come se, pur ammettendo la persistenza di certe diseguaglianze, queste fossero concepite come riconducibili a casi individuali e come se la loro contestazione pubblica contribuisse ad infrangere l'armonia che dovrebbe regnare fra i sessi. Per evitare di destabilizzare i rapporti con gli uomini,  le donne vengono sollecitate ad assumere un atteggiamento conciliante, di rinuncia alle proprie rivendicazioni, anziché adottare un comportamento conflittuale.
La sezione più interessante della tesi di Zoé Rüesch è quella empirica, imperniata sulle interviste a otto ragazze francesi e svizzere, studentesse universitarie o laureate, di età compresa tra i 22 e i 30 anni che, pur condividendo alcune idee femministe, rifiutano  di essere considerate tali.
Tutte riconoscono la sussistenza delle asimmetrie di genere che si sostanzierebbero nelle differenze salariali e contrattuali fra lavoratori e lavoratrici,  nello squilibrio esistente nella sfera della rappresentanza politica, più raramente nella disuguale ripartizione del lavoro domestico e di cura. La violenza maschile sulle donne e lo stupro non sono invece interpretate come questioni sociali, ma come effetti del temperamento aggressivo o della follia di alcuni uomini. In altri termini, non viene riconosciuta la natura strutturale della violenza, come "manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione" (Convenzione di Istanbul).
L'ideale egalitario delle intervistate è notevolmente temperato dall'enfatizzazione, tipicamente neoliberista, della responsabilità individuale e della libertà di scelta, che ostacola la percezione del carattere sociale delle diseguaglianze. Si ritiene che ciascun individuo possa decidere autonomamente il proprio destino, incluso quello di essere schiavo od oppresso e ciò è ritenuto  più importante della realizzazione dell'uguaglianza di genere. In tal modo, le strutture sociali e le discriminazioni  da esse generate non vengono rimesse in discussione.
La stessa segregazione orizzontale e verticale del lavoro è interpretata come conseguenza dell'applicazione del principio meritocratico e, dunque, come responsabilità diretta delle donne. Nel sistema produttivo, secondo tale prospettiva,  le posizioni apicali, le mansioni più gratificanti e le remunerazioni più elevate vengono riservate ai dipendenti più competenti o più produttivi e disponibili a svolgere ore supplementari di lavoro e le donne, evidentemente, non  rientrano in questa categoria: un discorso che si può applicare anche alla rappresentanza politica. Si tratta di un discorso che non prende minimamente in considerazione la realtà e le ragioni che determinano la divisione sessuale del lavoro e  che trascura  l'esistenza di rapporti di forza fra uomini e donne.  Ritenere queste ultime responsabili degli ostacoli che si frappongono alla loro carriera appare meno doloroso di quanto lo sia rappresentarsi il mondo come un ambiente ostile che genera e rinforza le discriminazioni, poiché concepire un problema come individuale, anche se coinvolge molte persone, anziché sociale, offre  ai soggetti l'illusione che sia sufficiente modificare il proprio comportamento per migliorare la propria situazione. Trasformare radicalmente l'ordine sociale, sopprimere il sistema patriarcale appare molto più difficile, se non impossibile.  In tal modo, però, viene legittimata l'esistenza delle diseguaglianze.
Le intervistate assumono un atteggiamento individualista, percepiscono le difficoltà come personali e particolari e ciò rende difficile la loro identificazione con le femministe che evocano, al contrario, l'idea di una collettività che concepisce le diseguaglianze come espressione di rapporti di genere asimmetrici e, quindi, sa individuare le dimensioni comuni dei percorsi  soggettivi di vita.
L'illusione di disporre di una completa libertà di scelta, l'individualismo e la psicologizzazione costituiscono, dunque,  alcuni dei motivi che  impediscono alle intervistate di aderire al femminismo.  L'ultimo meccanismo da me citato consiste, secondo la definizione di Patrizia Romito (Un silenzio assordante), "nell'interpretare un problema in termini individualistici e psicologici piuttosto che politici, economici o sociali e nel rispondere di conseguenza in questi termini. E' un meccanismo sociale potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione e la potenziale ribellione. La psicologizzazione è quindi una tattica di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti".
Non solo.
Al mito dell'ormai avvenuto raggiungimento dell'uguaglianza di genere si affianca, paradossalmente in apparenza, la preoccupazione di naturalizzare le differenze fra i sessi. Le intervistate si sono mostrate sensibili alla possibile influenza esercitata dalla biologia sulle scelte di vita degli individui, sulle loro predisposizioni ed aspirazioni. Se esiste  un istinto materno, se le donne dispongono ontologicamente di maggiori competenze relazionali rispetto agli uomini, è naturale che consacrino più tempo di questi ultimi alle attività domestiche e di cura e che  si adattino più facilmente allo svolgimento di un lavoro part-time. Questo essenzialismo rende avulso alle intervistate il femminismo dell'uguaglianza, ma, paradossalmente in apparenza, anche quello della differenza, poiché  quest'ultima viene concepita come complementarietà armoniosa tra i sessi. Di conseguenza, la costituzione di collettivi di donne che elaborano proprie teorie, adottano determinate pratiche, formulano rivendicazioni autonome è percepita come una manifestazione di avversione agli uomini. Inoltre, la pratica e il linguaggio della contestazione, dell'opposizione, della lotta per conseguire un obiettivo sono ritenuti prettamente maschili, estranei all'essenza femminile. Le donne disporrebbero piuttosto di un'attitudine naturale a promuovere la conciliazione degli opposti, a tessere rapporti, a prendersi cura delle relazioni con gli uomini, a garantire il benessere di tutti i  componenti del proprio entourage. Sarebbero inclini ad esprimere tenerezza, non collera, combattività ed aggressività.
Una preoccupazione che assilla le ragazze intervistate è quella di preservare l'armonia della   loro coppia. Il loro compagno è descritto come un uomo meraviglioso, profondamente diverso dagli altri. Eppure la coppia, il matrimonio, la convivenza sono, secondo molte ricerche, condizioni propizie  al rafforzamento delle diseguaglianze  fra i sessi,  in quanto caratterizzati ad esempio da una disuguale ripartizione delle attività domestiche e di cura. Ma la coppia rappresenta, per le ragazze intervistate, il luogo del libero dispiegamento dell'oblatività e dell'abnegazione, "virtù" che comportano la   rinuncia all'applicazione della giustizia commutativa. Ora, la dedizione e il sacrificio di sé sono giustamente percepiti come molto distanti dalla posizione rivendicativa delle femministe. Evocare le discriminazioni, l'iniqua ripartizione delle incombenze domestiche e del lavoro di cura che si realizza nell'ambito della famiglia, protestare o rivendicare una differente suddivisione dell'attività di riproduzione significa attivare comportamenti che potrebbero infrangere l'ideale di pace e di armonia della coppia che sembra dominare  la mente delle intervistate. Una postura femminista comporterebbe per queste ragazze il rischio di disgregare il rapporto con l'uomo cui sono legate.
Quanto alla giustizia, se è socialmente accettata l'idea che uomini e donne debbano godere degli stessi diritti, è altrettanto vero che, dovendosi quotidianamente confrontare con discriminazioni diffuse in ogni ambito, le donne tendono ad adattarsi a questa realtà, per renderla sopportabile.  Alcune delle intervistate ritengono inoltre che l'uguaglianza di genere costituisca un'irrealizzabile utopia e che pertanto la battaglia delle femministe sia vana.
 
Non esiste alcuna società che non sia organizzata secondo un principio gerarchico. E' sempre stato così, dappertutto. Vi è necessariamente qualcuno che prende le decisioni e qualcun altro che le esegue. E' così nel governo degli Stati, nella famiglia, forse nella coppia, in una fratria. E' normale che sia così. (Anne-Marie).
 
Se l'ordine sociale è ritenuto immutabile, la lotta femminista risulta necessariamente priva di senso. 
A questa forma di conservatorismo si associa il confronto con le altre donne, processo che conduce a banalizzare le ingiustizie, dal momento che tutte le subiscono, forse anche in forma più grave. La normalizzazione dell'iniquità soffoca, a sua volta, lo spirito di rivolta.
La maggioranza delle ragazze intervistate è sensibile alle discriminazioni che si manifestano nella sfera pubblica e si dichiara in questo caso favorevole alle posizioni delle femministe. Allorché, tuttavia,  si fa riferimento  ai rapporti personali, le ingiustizie non vengono più percepite come tali, ma vengono piuttosto reinterpretate come manifestazioni delle naturali differenze fra i sessi, come espressioni delle qualità, delle attitudini e delle competenze proprie di ciascun genere. Le femministe sono allora descritte come donne estremiste e frustrate, in quanto inclini a condannare "ingiustizie" che le altre sono in grado di tollerare senza troppo soffrire. Sarebbero, in altre parole, delle vittimiste. Protestare significa riconoscersi vittime dell'ingiustizia e lottare assieme alle altre per eliminarla: ma è proprio questo l'atto che le intervistate si rifiutano di compiere. Le femministe sono accusate di adottare un paradigma vittimario che presenta le donne come vulnerabili, indifese, oppresse, assoggettate al dominio maschile. Questa accusa provoca una dislocazione della responsabilità: le violenze maschili sulle donne vengono occultate  e alle femministe che le denunciano viene imputata la colpa di dipingere  tutti gli uomini  come carnefici e tutte le donne come vittime.
Dalle interviste svolte, osserva Zoé Rüesch, affiora soprattutto un'inquietudine profonda  di fronte all'ignoto, la paura dell' omologazione dei sessi e  dell'indifferenziazione dei ruoli, il timore nei confronti di rivendicazioni femministe che sono rivolte alla società, ma che sollecitano anche a interrogarsi sulla natura delle relazioni intime fra uomini e donne. Al di là dell'assimilazione delle rappresentazioni antifemministe, è soprattutto la preoccupazione di dover ripensare l'organizzazione della propria famiglia o le modalità di funzionamento del rapporto di coppia a intimorire le intervistate e a renderle diffidenti nei confronti del femminismo.
 
Proprio perché

- conclude amaramente Zoé Rüesch - il termine "femminista" rinvia, nel pensiero delle nostre intervistate, alla rimessa in discussione delle strutture sociali e di un sistema di pensiero che assegna loro una posizione, certo, subalterna, ma, nondimeno, famigliare, esse non vogliono essere assimilate alle femministe.

 

2 commenti:

  1. l'individualismo non è tutto da buttare. E io nella libertà di scelta continuo a crederci senza incolpare i poveri delle loro disgrazie.
    La Badinter (di cui non condivido tutto ma alcune cose sì) è una che dice cose scomode a volte per le stesse femministe come Camille Paglia in America..perciò non è amata

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    1. e che esista l'estremismo anche nel femminiso è vero ma semplicemente perchè esiste una parte estrema in ogni movimento di liberazione, ma la parte estrema non è il tutto

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