lunedì 4 agosto 2014

Quello che gli uomini non fanno



Dati

Cos'è che non fanno gli uomini? Il lavoro familiare, naturalmente, ossia quel complesso di attività domestiche, di cura e di consumo non retribuite necessarie alla riproduzione della famiglia, il cui valore economico in Italia è stimato pari al 30% del PIL.
Se focalizziamo l'attenzione sulle coppie nelle quali la donna, di età compresa tra i 25 e i 44 anni, ha un impiego retribuito, il primo elemento rilevante che emerge dai dati ISTAT del 2010 è la forte disuguaglianza di genere che si riscontra nella ripartizione del lavoro familiare, il 71,3% del quale è da lei svolto. Si tratta di un dato di poco inferiore a quello registrato nell'indagine effettuata nel 2002-2003 (73,4%) e non troppo distante da quello del 1988-1989 (79,7%). L'asimmetria è  presente in tutto il Paese, anche se a Nord le cifre sono lievemente inferiori (69,2%) a quelle del Centro (73,3%) e del Mezzogiorno (74,7%).
Le donne consacrano quotidianamente al lavoro familiare 4h40' contro 1h54' degli uomini, il 19,2% dei quali contro l'1,6% delle prime non effettua alcuna attività domestica. Il tempo dedicato dagli uomini a queste mansioni è aumentato solo di pochi minuti nel corso degli ultimi vent'anni (da 1h32' a 1h54'). Per quanto riguarda il lavoro domestico (escluso, cioè, quello di cura e di consumo, che include ad esempio il disbrigo di pratiche burocratiche), il 34,8% degli uomini  nel 2008-2009 non se ne occupava minimamente. In un giorno medio le donne trascorrono 59' a cucinare contro i 16' degli uomini, 1h 14' contro 18' a pulire la casa, 20 minuti a lavare o a stirare, attività cui gli uomini non consacrano neppure un secondo. Ancora più impressionanti i dati sulla frequenza di partecipazione maschile allo svolgimento di queste mansioni: il 58,3% degli uomini non cucina, il 68,4% non collabora mai ai lavori di pulizia, il 98,6% non sa come funzioni la lavatrice e il ferro da stiro.
Il tempo destinato quotidianamente alla cura dei figli : mediamente 2h13' le madri e 1h23' i padri sembrerebbe evidenziare un minore squilibrio di genere. In realtà, soltanto il 57,8% dei padri rispetto all'85,9% delle madri svolge ogni giorno almeno un'attività di accudimento dei figli e le seconde si accollano il 65,8% del lavoro. Ancora più interessante è constatare quanto differente sia l'impegno dei due genitori. Quello delle madri si rivela molto più oneroso e routinario, consistendo per il 61,5%  del totale nella cura fisica e nella sorveglianza della prole, mentre i padri si godono il 58,5% del tempo riservato da entrambi i genitori alle attività ludiche con i figli. Il 20% delle mamme e solo il 5% dei papà aiuta, poi, i bambini a svolgere i compiti scolastici.
I dati presentati dall'EUROSTAT nel 2006 rivelano che il tempo dedicato dalle donne italiane al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell'Unione Europea (5h20' al giorno contro 3h42' delle svedesi, il più basso), mentre gli uomini italiani sono quelli che se ne accollano la quantità minore (1h35' contro 2h48' degli estoni, i più impegnati). Il nostro Paese è, assieme alla Spagna, quello nel quale la diseguaglianza di genere nella ripartizione del lavoro familiare si rivela più accentuata, mentre la Svezia è lo Stato nel quale il pur persistente squilibrio risulta più contenuto.
 
Spiegazioni
Nell'interessante libro Quel che gli uomini non fanno, Lorenzo Tedesco illustra le prospettive teoriche formulate dai sociologi per spiegare questi dati e per chiarire le dinamiche che presiedono alla disuguale ripartizione del lavoro familiare fra i partner.
La teoria delle risorse relative concepisce il rapporto di coppia come una relazione di scambio in cui il potere è correlato alla distribuzione delle risorse economiche individuali tra i conviventi: quello più debole, (generalmente la donna) se è interessato a conservare il legame affettivo, deve offrire all'altro deferenza ed obbedienza ed accollarsi la maggior parte delle incombenze domestiche. Un'applicazione particolare di questa prospettiva è la teoria della dipendenza economica: il partner che gode di una più elevata retribuzione condivide una quota del suo reddito con l'altro e quest'ultimo ricambia, sobbarcandosi la maggior parte dell'attività di riproduzione.
Quest'ipotesi non ha ricevuto conferma dagli studi empirici. Una ricerca, fondata su alcuni dati longitudinali, effettuata in Svezia, ha rimarcato l'assenza di una correlazione diretta fra riequilibrio delle risorse economiche tra i membri della coppia e redistribuzione dei carichi di lavoro familiare. Questa teoria  rivela uno scarso valore epistemologico anche se applicata alle coppie non convenzionali, nelle quali la donna dispone di maggiori risorse economiche. In tal caso dovrebbe essere l'uomo ad accollarsi la gran parte delle incombenze domestiche e di cura: un'ipotesi che non è mai stata suffragata da alcun tipo di riscontro empirico. Al contrario,  alcuni studi attestano che  maggiore è la dipendenza economica degli uomini dalle partner, minore è il loro contributo allo svolgimento del lavoro familiare. Secondo la sociologa Brines, questo comportamento costituisce un tentativo di affermare la propria appartenenza di genere: gli uomini che non assolvono le funzioni e le responsabilità loro prescritte dalle norme sociali sessuate - in primo luogo quella di essere i principali percettori di reddito della famiglia - cercano di compensare la propria posizione atipica,  attuando condotte fortemente tradizionali in altri ambiti della relazione di coppia, per dimostrare la propria conformità all'ideale maschile egemone. Secondo Greenstein, in queste coppie non convenzionali si innesca anche un processo di neutralizzazione della devianza. Sia le donne che fungono da principali procacciatrici di reddito che gli uomini economicamente dipendenti percepiscono di occupare posizioni opposte a quelle prescritte dalla tradizionale divisione sessuale dei ruoli: di conseguenza, enfatizzano i comportamenti che contrastano queste "devianze" dalla norma,  occupandosi moltissimo le prime e pochissimo i secondi del lavoro familiare.
La prospettiva dell'ideologia di genere  si ispira, invece, ad un approccio culturalista e postula che donne ed uomini si impegnino nel lavoro familiare e in quello retribuito con intensità diversa in base agli atteggiamenti, alle aspettative e alle credenze che hanno maturato relativamente alla divisione dei ruoli e delle responsabilità fra i sessi. E' questo che si intende con l'espressione "ideologia di genere" che qui, a differenza che nel pensiero cattolico, non assume alcuna connotazione negativa. L'attività di riproduzione è associata all'appartenenza al sesso femminile, sicché le donne che condividono un'ideologia tradizionale, secondo tale teoria, tendono a farsene carico quasi interamente, mentre quelle che contestano la divisione di genere dei ruoli cercano di coinvolgere maggiormente il partner nello svolgimento delle incombenze domestiche. A loro volta, gli uomini che aderiscono ad un'ideologia di genere tradizionale tentano di scaricare sulla partner  quasi tutto il lavoro familiare, al fine di rafforzare o confermare la propria identità maschile, mentre quelli che coltivano un ideale egalitario sono disposti ad accollarsi una quota più o meno cospicua dell'attività di riproduzione, poiché non  la ritengono in contrasto con la propria concezione di mascolinità.
Alcuni studiosi attribuiscono la responsabilità della formazione dell'ideologia di genere al processo di socializzazione: bambine e bambini vengono sollecitati dai genitori, dalla scuola, dal gruppo dei pari e dai mass-media ad assumere  precisi e rigidi ruoli che riprodurranno nell'età adulta. Altri ricercatori, invece, concepiscono l'ideologia di genere come un'iterazione quotidiana di atti performativi che cercano di approssimarsi ai modelli di comportamento socialmente prescritti al  proprio sesso. Gli studi hanno dimostrato l'effettiva incidenza del processo di socializzazione nella ripartizione disuguale delle incombenze domestiche e di cura. La percentuale di donne impegnate in attività retribuite di questo tipo (colf, baby-sitter, "badanti") nei Paesi UE non è mai inferiore al 90%. Inoltre, fin dall'adolescenza le figlie cooperano all'esecuzione del lavoro familiare ben più dei figli e le differenze aumentano con l'età. In Italia, i dati sono rispettivamente questi:  48' al giorno contro 22' tra gli 11 e i 17 anni, 1h30' contro 27' tra i 18 e i 24 anni e 1h55' contro 35' sopra i 24 anni. Le figlie che non collaborano allo svolgimento delle mansioni domestiche e di cura sono il 35,3% tra gli 11 e i 17 anni contro il 56,5% dei figli, il 23,9% tra i 18 e i 24 anni contro il 60,9% e il 21,1% sopra i 24 anni contro il 56,9%.
La prospettiva dell'ideologia di genere ha empiricamente evidenziato un maggior potere esplicativo rispetto a quella delle risorse relative. Numerosi studi hanno dimostrato, infatti, che  l'adesione ad un'ideologia di genere egalitaria  conduce le donne ad accollarsi un minor carico di lavoro familiare e gli uomini uno maggiore. Tuttavia, al progressivo spostamento degli individui su posizioni più favorevoli alla parità fra i sessi  non è corrisposto un riequilibrio altrettanto significativo nella ripartizione dell'attività di riproduzione. In Italia, ad esempio, una donna che si conforma ad un'ideologia di genere egalitaria si fa carico del 67% del lavoro familiare, mentre una tradizionalista svolge il 72% delle incombenze domestiche e di cura. Per quanto riguarda gli uomini, le stesse percentuali sono rispettivamente del 37% e del 34%. La differenza, come è facile constatare, è minima.
Una terza prospettiva teorica microsociale che è stata formulata per chiarire la dinamica della suddivisione del lavoro familiare nell'ambito della coppia è quella della disponibilità di tempo. Secondo questo approccio, il partner che occupa la posizione migliore nel mercato del lavoro tende a specializzarsi nel ruolo di percettore di reddito, mentre l'altro consacra il suo tempo all'esecuzione dell'attività di riproduzione.
Il  potere epistemologico  di questa teoria è piuttosto basso. Nelle coppie in cui entrambi i partner sono occupati per un numero di ore simili in attività retribuite di analogo valore economico sono comunque le donne ad eseguire la maggior parte del lavoro familiare.
Un numero crescente di studiosi adotta una prospettiva esplicativa macrosociale, focalizzando l'attenzione sui differenti contesti politici nazionali e, in particolare, sui diversi regimi di welfare. Geist osserva come gli Stati socialdemocratici perseguano la parità tra uomini e donne, quelli liberali si caratterizzino per l'assenza di politiche di genere, mentre quelli conservatori promuovano attivamente il mantenimento della tradizionale divisione sessuale del lavoro. In quest'ottica, una donna che aderisce ad un'ideologia di genere egualitaria ha maggiori probabilità di concordare con il partner una ripartizione più equilibrata dell'attività di riproduzione  se risiede in uno Stato scandinavo piuttosto che in un Paese fortemente conservatore come l'Italia.
Gli studi empirici hanno dimostrato che le coppie che vivono negli Stati in cui le disuguaglianze di genere  sono più contenute tendono a negoziare una divisione del lavoro familiare più egualitaria rispetto a quelle che risiedono nei Paesi nei quali le discriminazioni risultano più marcate.
La disuguale ripartizione dell'attività di riproduzione nella coppia non è necessariamente percepita come iniqua dalle donne. Il vissuto è fortemente influenzato, infatti, dall'ideologia di genere che condiziona, anzitutto, i risultati desiderati dalla relazione di coppia: una donna tradizionalista può aspirare alla stabilità e all'armonia, una  egalitaria all'indipendenza e alla parità. La prima, inoltre, tende a comparare la propria quota di lavoro familiare a quella di altre donne simili a lei, percependo poco o per nulla l'iniquità di cui è vittima, mentre la seconda è incline a  confrontarsi con il partner, cogliendo immediatamente l'eventuale ingiustizia presente nella ripartizione dell'attività di riproduzione. Ciò incide, naturalmente, sul grado di soddisfazione che si ricava dalla relazione.
In conclusione, la suddivisione del lavoro familiare è condizionata dal regime di welfare state, dalle politiche nazionali più o meno orientate verso la parità di genere e dalle convinzioni individuali circa la necessità di conformarsi o meno ai ruoli tradizionalmente attribuiti al proprio sesso. Tuttavia, anche nelle condizioni migliori, la disuguaglianza permane e assume un'ampiezza tutt'altro che irrilevante.
A mio parere, dovremmo impegnarci con molta tenacia ad innescare profondi mutamenti culturali e politici, più che necessari in un Paese conservatore come l'Italia, ma potremmo contemporaneamente prospettare  altre soluzioni: quella ad esempio di intrecciare   relazioni sentimentali eterosessuali che non prevedano la coabitazione (E' l'espediente che ho adottato io. Suppongo, o almeno mi auguro, che in una coppia omosessuale la ripartizione dell'attività di riproduzione sia più paritaria). Potremmo, soprattutto, sperimentare forme di socializzazione del lavoro familiare simili a quelle che ho indicato nell'articolo: La "separazione della cucina dal matrimonio": ecco una grande riforma" che contemplino la partecipazione degli uomini. 
 
 
 

4 commenti:

  1. quindi pure se lei lavora e lui sta a casa non va bene? per me è ovvio che sopratutto se entrambi lavorano entrambi devono occuparsi della casa, poi ogni coppia si gestisce come vuole e come può.
    Relazioni sentimentali che non prevedono la coabitazione? Bè Livia e Salvo Montalbano lo fanno e pare funzionare per loro (ma se ci sono dei figli?),ma se due vogliono co-abitare come fanno la maggioranza delle coppie devono poterlo fare. Io alla co-abitazione non vorrei rinunciare..forse sarebbe il caso di co-abitare con uomini che non vanno in crisi se a turno devono lavare i piatti. Ci sono

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  2. Non è che voglia imporre a tutti una relazione senza convivenza, Paolo. E' una delle possibili soluzioni. Ve ne sono altre. Se la donna lavora e l'uomo dipende economicamente da lei, tende a non assumersi l'onere di svolgere le incombenze domestiche e di cura perché ritiene che non siano conformi al ruolo maschile. Lo dicono le ricerche, non io. Se entrambi i partner condividono un'ideologia di genere egalitaria, la donna si accolla comunque gran parte del lavoro familiare. Bisogna produrre mutamenti politici e culturali più profondi e individuare soluzioni innovative.

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    1. non è che non creda nelle soluzioni politiche (sono favorevole a congedi di paternità più lunghi e obbligatori come quelli di maternità e ogni misura di welfare che aiuti la lavoratrice madre e il lavoratore padre a conciliare), dico che non possiamo andare a dire alle coppie quello che devono fare: se la coppia condivide una ideologia di genere egualitaria per cui lui non è un Homer Simpson o un patetico omino non si sente castrato se lava i piatti (ma esiste la lavastoviglie oggi! Davvero in Occidente c'è bisogno di qualcuno che lavi i piatti? Lavastoviglie e lavatrice non hanno semplificato le cose?) ma lei comunque si accolla (o decide di svolgere) gran parte del lavoro familiare non si può pretendere di andare da queste coppie "no guardate è sbagliato come vivete provate a fare così e cosà", le coppie quelle "convenzionali" come quelle che no, si gestiscono come vogliono e come possono.
      Comunque al di là di questo e senza voler difendere gli uomini che non muovono un dito in casa..ipotizzo che alcuni non facciano certi mestieri di casa perchè li ritengono inutili: stirare, ad esempio..a che serve? Io non l'ho mai capito, e di sicuro non pretendo nè pretenderò mai che qualcuno mi stiri i vestiti neanche le camicie.

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    2. cioè "non è un patetico omino che si sente castrato se.." così è più chiaro

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