Dati
Cos'è che non fanno gli
uomini? Il lavoro familiare, naturalmente, ossia quel complesso di attività
domestiche, di cura e di consumo non retribuite necessarie alla riproduzione
della famiglia, il cui valore economico in Italia è stimato pari al 30% del
PIL.
Se focalizziamo l'attenzione
sulle coppie nelle quali la donna, di età compresa tra i 25 e i 44 anni, ha un
impiego retribuito, il primo elemento rilevante che emerge dai dati ISTAT del
2010 è la forte disuguaglianza di genere che si riscontra nella ripartizione
del lavoro familiare, il 71,3% del quale è da lei svolto. Si tratta di un dato di
poco inferiore a quello registrato nell'indagine effettuata nel 2002-2003
(73,4%) e non troppo distante da quello del 1988-1989 (79,7%). L'asimmetria
è presente in tutto il Paese, anche se a
Nord le cifre sono lievemente inferiori (69,2%) a quelle del Centro (73,3%) e
del Mezzogiorno (74,7%).
Le donne consacrano quotidianamente
al lavoro familiare 4h40' contro 1h54' degli uomini, il 19,2% dei quali contro
l'1,6% delle prime non effettua alcuna attività domestica. Il tempo dedicato dagli
uomini a queste mansioni è aumentato solo di pochi minuti nel corso degli ultimi
vent'anni (da 1h32' a 1h54'). Per quanto riguarda il lavoro domestico (escluso,
cioè, quello di cura e di consumo, che include ad esempio il disbrigo di
pratiche burocratiche), il 34,8% degli uomini
nel 2008-2009 non se ne occupava minimamente. In un giorno medio le
donne trascorrono 59' a cucinare contro i 16' degli uomini, 1h 14' contro 18' a
pulire la casa, 20 minuti a lavare o a stirare, attività cui gli uomini non
consacrano neppure un secondo. Ancora più impressionanti i dati sulla frequenza
di partecipazione maschile allo svolgimento di queste mansioni: il 58,3% degli
uomini non cucina, il 68,4% non collabora mai ai lavori di pulizia, il 98,6%
non sa come funzioni la lavatrice e il ferro da stiro.
Il tempo destinato
quotidianamente alla cura dei figli : mediamente 2h13' le madri e 1h23' i padri
sembrerebbe evidenziare un minore squilibrio di genere. In realtà, soltanto il
57,8% dei padri rispetto all'85,9% delle madri svolge ogni giorno almeno
un'attività di accudimento dei figli e le seconde si accollano il 65,8% del
lavoro. Ancora più interessante è constatare quanto differente sia l'impegno
dei due genitori. Quello delle madri si rivela molto più oneroso e routinario,
consistendo per il 61,5% del totale
nella cura fisica e nella sorveglianza della prole, mentre i padri si godono il
58,5% del tempo riservato da entrambi i genitori alle attività ludiche con i figli.
Il 20% delle mamme e solo il 5% dei papà aiuta, poi, i bambini a svolgere i
compiti scolastici.
I dati presentati
dall'EUROSTAT nel 2006 rivelano che il tempo dedicato dalle donne italiane al
lavoro familiare è il più alto in assoluto nell'Unione Europea (5h20' al giorno
contro 3h42' delle svedesi, il più basso), mentre gli uomini italiani sono
quelli che se ne accollano la quantità minore (1h35' contro 2h48' degli estoni,
i più impegnati). Il nostro Paese è, assieme alla Spagna, quello nel quale la
diseguaglianza di genere nella ripartizione del lavoro familiare si rivela più
accentuata, mentre la Svezia è lo Stato nel quale il pur persistente squilibrio
risulta più contenuto.
Spiegazioni
Nell'interessante libro Quel che gli uomini non fanno, Lorenzo
Tedesco illustra le prospettive teoriche formulate dai sociologi per spiegare
questi dati e per chiarire le dinamiche che presiedono alla disuguale
ripartizione del lavoro familiare fra i partner.
La teoria delle risorse
relative concepisce il rapporto di coppia come una relazione di scambio in cui
il potere è correlato alla distribuzione delle risorse economiche individuali
tra i conviventi: quello più debole, (generalmente la donna) se è interessato a
conservare il legame affettivo, deve offrire all'altro deferenza ed obbedienza
ed accollarsi la maggior parte delle incombenze domestiche. Un'applicazione
particolare di questa prospettiva è la teoria della dipendenza economica: il
partner che gode di una più elevata retribuzione condivide una quota del suo
reddito con l'altro e quest'ultimo ricambia, sobbarcandosi la maggior parte dell'attività
di riproduzione.
Quest'ipotesi non ha ricevuto
conferma dagli studi empirici. Una ricerca, fondata su alcuni dati
longitudinali, effettuata in Svezia, ha rimarcato l'assenza di una correlazione
diretta fra riequilibrio delle risorse economiche tra i membri della coppia e
redistribuzione dei carichi di lavoro familiare. Questa teoria rivela uno scarso valore epistemologico anche
se applicata alle coppie non convenzionali, nelle quali la donna dispone di
maggiori risorse economiche. In tal caso dovrebbe essere l'uomo ad accollarsi
la gran parte delle incombenze domestiche e di cura: un'ipotesi che non è mai
stata suffragata da alcun tipo di riscontro empirico. Al contrario, alcuni studi attestano che maggiore è la dipendenza economica degli
uomini dalle partner, minore è il loro contributo allo svolgimento del lavoro
familiare. Secondo la sociologa Brines, questo comportamento costituisce un
tentativo di affermare la propria appartenenza di genere: gli uomini che non
assolvono le funzioni e le responsabilità loro prescritte dalle norme sociali
sessuate - in primo luogo quella di essere i principali percettori di reddito
della famiglia - cercano di compensare la propria posizione atipica, attuando condotte fortemente tradizionali in
altri ambiti della relazione di coppia, per dimostrare la propria conformità
all'ideale maschile egemone. Secondo Greenstein, in queste coppie non
convenzionali si innesca anche un processo di neutralizzazione della devianza.
Sia le donne che fungono da principali procacciatrici di reddito che gli uomini
economicamente dipendenti percepiscono di occupare posizioni opposte a quelle
prescritte dalla tradizionale divisione sessuale dei ruoli: di conseguenza,
enfatizzano i comportamenti che contrastano queste "devianze" dalla
norma, occupandosi moltissimo le prime e
pochissimo i secondi del lavoro familiare.
La prospettiva dell'ideologia
di genere si ispira, invece, ad un
approccio culturalista e postula che donne ed uomini si impegnino nel lavoro
familiare e in quello retribuito con intensità diversa in base agli
atteggiamenti, alle aspettative e alle credenze che hanno maturato
relativamente alla divisione dei ruoli e delle responsabilità fra i sessi. E'
questo che si intende con l'espressione "ideologia di genere" che
qui, a differenza che nel pensiero cattolico, non assume alcuna connotazione
negativa. L'attività di riproduzione è associata all'appartenenza al sesso
femminile, sicché le donne che condividono un'ideologia tradizionale, secondo
tale teoria, tendono a farsene carico quasi interamente, mentre quelle che
contestano la divisione di genere dei ruoli cercano di coinvolgere maggiormente
il partner nello svolgimento delle incombenze domestiche. A loro volta, gli
uomini che aderiscono ad un'ideologia di genere tradizionale tentano di
scaricare sulla partner quasi tutto il
lavoro familiare, al fine di rafforzare o confermare la propria identità
maschile, mentre quelli che coltivano un ideale egalitario sono disposti ad
accollarsi una quota più o meno cospicua dell'attività di riproduzione, poiché
non la ritengono in contrasto con la
propria concezione di mascolinità.
Alcuni studiosi attribuiscono
la responsabilità della formazione dell'ideologia di genere al processo di
socializzazione: bambine e bambini vengono sollecitati dai genitori, dalla
scuola, dal gruppo dei pari e dai mass-media ad assumere precisi e rigidi ruoli che riprodurranno
nell'età adulta. Altri ricercatori, invece, concepiscono l'ideologia di genere
come un'iterazione quotidiana di atti performativi che cercano di approssimarsi
ai modelli di comportamento socialmente prescritti al proprio sesso. Gli studi hanno dimostrato
l'effettiva incidenza del processo di socializzazione nella ripartizione disuguale
delle incombenze domestiche e di cura. La percentuale di donne impegnate in attività
retribuite di questo tipo (colf, baby-sitter, "badanti") nei Paesi UE
non è mai inferiore al 90%. Inoltre, fin dall'adolescenza le figlie cooperano all'esecuzione
del lavoro familiare ben più dei figli e le differenze aumentano con l'età. In Italia,
i dati sono rispettivamente questi: 48' al
giorno contro 22' tra gli 11 e i 17 anni, 1h30' contro 27' tra i 18 e i 24 anni
e 1h55' contro 35' sopra i 24 anni. Le figlie che non collaborano allo svolgimento
delle mansioni domestiche e di cura sono il 35,3% tra gli 11 e i 17 anni contro
il 56,5% dei figli, il 23,9% tra i 18 e i 24 anni contro il 60,9% e il 21,1% sopra
i 24 anni contro il 56,9%.
La prospettiva dell'ideologia
di genere ha empiricamente evidenziato un maggior potere esplicativo rispetto a
quella delle risorse relative. Numerosi studi hanno dimostrato, infatti, che l'adesione ad un'ideologia di genere egalitaria conduce le donne ad accollarsi un minor
carico di lavoro familiare e gli uomini uno maggiore. Tuttavia, al progressivo
spostamento degli individui su posizioni più favorevoli alla parità fra i sessi
non è corrisposto un riequilibrio
altrettanto significativo nella ripartizione dell'attività di riproduzione. In
Italia, ad esempio, una donna che si conforma ad un'ideologia di genere
egalitaria si fa carico del 67% del lavoro familiare, mentre una
tradizionalista svolge il 72% delle incombenze domestiche e di cura. Per quanto
riguarda gli uomini, le stesse percentuali sono rispettivamente del 37% e del
34%. La differenza, come è facile constatare, è minima.
Una terza prospettiva teorica
microsociale che è stata formulata per chiarire la dinamica della suddivisione
del lavoro familiare nell'ambito della coppia è quella della disponibilità di
tempo. Secondo questo approccio, il partner che occupa la posizione migliore
nel mercato del lavoro tende a specializzarsi nel ruolo di percettore di
reddito, mentre l'altro consacra il suo tempo all'esecuzione dell'attività di
riproduzione.
Il potere epistemologico di questa teoria è piuttosto basso. Nelle
coppie in cui entrambi i partner sono occupati per un numero di ore simili in
attività retribuite di analogo valore economico sono comunque le donne ad
eseguire la maggior parte del lavoro familiare.
Un numero crescente di
studiosi adotta una prospettiva esplicativa macrosociale, focalizzando
l'attenzione sui differenti contesti politici nazionali e, in particolare, sui
diversi regimi di welfare. Geist osserva come gli Stati socialdemocratici
perseguano la parità tra uomini e donne, quelli liberali si caratterizzino per
l'assenza di politiche di genere, mentre quelli conservatori promuovano
attivamente il mantenimento della tradizionale divisione sessuale del lavoro.
In quest'ottica, una donna che aderisce ad un'ideologia di genere egualitaria
ha maggiori probabilità di concordare con il partner una ripartizione più
equilibrata dell'attività di riproduzione se risiede in uno Stato scandinavo piuttosto
che in un Paese fortemente conservatore come l'Italia.
Gli studi empirici hanno
dimostrato che le coppie che vivono negli Stati in cui le disuguaglianze di
genere sono più contenute tendono a
negoziare una divisione del lavoro familiare più egualitaria rispetto a quelle
che risiedono nei Paesi nei quali le discriminazioni risultano più marcate.
La disuguale ripartizione
dell'attività di riproduzione nella coppia non è necessariamente percepita come
iniqua dalle donne. Il vissuto è fortemente influenzato, infatti,
dall'ideologia di genere che condiziona, anzitutto, i risultati desiderati
dalla relazione di coppia: una donna tradizionalista può aspirare alla
stabilità e all'armonia, una egalitaria
all'indipendenza e alla parità. La prima, inoltre, tende a comparare la propria
quota di lavoro familiare a quella di altre donne simili a lei, percependo poco
o per nulla l'iniquità di cui è vittima, mentre la seconda è incline a confrontarsi con il partner, cogliendo
immediatamente l'eventuale ingiustizia presente nella ripartizione
dell'attività di riproduzione. Ciò incide, naturalmente, sul grado di
soddisfazione che si ricava dalla relazione.
In conclusione, la
suddivisione del lavoro familiare è condizionata dal regime di welfare state,
dalle politiche nazionali più o meno orientate verso la parità di genere e
dalle convinzioni individuali circa la necessità di conformarsi o meno ai ruoli
tradizionalmente attribuiti al proprio sesso. Tuttavia, anche nelle condizioni
migliori, la disuguaglianza permane e assume un'ampiezza tutt'altro che
irrilevante.
A mio parere, dovremmo
impegnarci con molta tenacia ad innescare profondi mutamenti culturali e
politici, più che necessari in un Paese conservatore come l'Italia, ma potremmo
contemporaneamente prospettare altre
soluzioni: quella ad esempio di intrecciare relazioni sentimentali eterosessuali che non
prevedano la coabitazione (E' l'espediente che ho adottato io. Suppongo, o
almeno mi auguro, che in una coppia omosessuale la ripartizione dell'attività
di riproduzione sia più paritaria). Potremmo, soprattutto, sperimentare forme
di socializzazione del lavoro familiare simili a quelle che ho indicato
nell'articolo: La "separazione della cucina dal matrimonio": ecco una grande riforma"
che contemplino la partecipazione degli uomini.
quindi pure se lei lavora e lui sta a casa non va bene? per me è ovvio che sopratutto se entrambi lavorano entrambi devono occuparsi della casa, poi ogni coppia si gestisce come vuole e come può.
RispondiEliminaRelazioni sentimentali che non prevedono la coabitazione? Bè Livia e Salvo Montalbano lo fanno e pare funzionare per loro (ma se ci sono dei figli?),ma se due vogliono co-abitare come fanno la maggioranza delle coppie devono poterlo fare. Io alla co-abitazione non vorrei rinunciare..forse sarebbe il caso di co-abitare con uomini che non vanno in crisi se a turno devono lavare i piatti. Ci sono
Non è che voglia imporre a tutti una relazione senza convivenza, Paolo. E' una delle possibili soluzioni. Ve ne sono altre. Se la donna lavora e l'uomo dipende economicamente da lei, tende a non assumersi l'onere di svolgere le incombenze domestiche e di cura perché ritiene che non siano conformi al ruolo maschile. Lo dicono le ricerche, non io. Se entrambi i partner condividono un'ideologia di genere egalitaria, la donna si accolla comunque gran parte del lavoro familiare. Bisogna produrre mutamenti politici e culturali più profondi e individuare soluzioni innovative.
RispondiEliminanon è che non creda nelle soluzioni politiche (sono favorevole a congedi di paternità più lunghi e obbligatori come quelli di maternità e ogni misura di welfare che aiuti la lavoratrice madre e il lavoratore padre a conciliare), dico che non possiamo andare a dire alle coppie quello che devono fare: se la coppia condivide una ideologia di genere egualitaria per cui lui non è un Homer Simpson o un patetico omino non si sente castrato se lava i piatti (ma esiste la lavastoviglie oggi! Davvero in Occidente c'è bisogno di qualcuno che lavi i piatti? Lavastoviglie e lavatrice non hanno semplificato le cose?) ma lei comunque si accolla (o decide di svolgere) gran parte del lavoro familiare non si può pretendere di andare da queste coppie "no guardate è sbagliato come vivete provate a fare così e cosà", le coppie quelle "convenzionali" come quelle che no, si gestiscono come vogliono e come possono.
EliminaComunque al di là di questo e senza voler difendere gli uomini che non muovono un dito in casa..ipotizzo che alcuni non facciano certi mestieri di casa perchè li ritengono inutili: stirare, ad esempio..a che serve? Io non l'ho mai capito, e di sicuro non pretendo nè pretenderò mai che qualcuno mi stiri i vestiti neanche le camicie.
cioè "non è un patetico omino che si sente castrato se.." così è più chiaro
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