Nei giorni scorsi è stata
pubblicata dai quotidiani "Repubblica" e il "Corriere della
Sera" una galleria fotografica di ragazze e donne che sostengono di non
aver bisogno del femminismo.
Etre féministe aujourd'hui ? Représentations associées aux féministes et ambiguïtés del'étiquette féministe:
un'assai stimolante tesi, redatta nel 2010, alla
conclusione di un master in studi di genere, da Zoé Rüesch, si sforza di individuare ed enucleare i motivi che
inducono molte donne a percepire il termine "femminista" come stigmatizzante e a respingere un
movimento di cui pure mostrano di aver
recepito, almeno in minima parte, i valori.
Le immagini che molte donne associano al femminismo sono negative a causa, in primo
luogo, dell'assimilazione della retorica
antifemminista che concorre a minarne le rivendicazioni, a stigmatizzare i
comportamenti associati al movimento e a
screditare qualsiasi presa di posizione
favorevole all'uguaglianza di diritti e di condizione economica,
sociale, giuridica, culturale e simbolica di uomini e donne.
L'irruzione sulla scena pubblica e la visibilità del femminismo hanno
sempre prodotto un contrattacco più o meno forte, ossia una reazione di
demonizzazione del movimento fondata sul ricorso ad una serie di concetti
enunciati da Christine Bard in Un
siècle d’antiféminisme e mutuati dal libro Retoriche
dell'intransigenza di Albert O. Hirschman, che analizza i discorsi
reazionari, i quali ricorrono
abbondantemente alle tesi della perversità, della futilità e della messa a
repentaglio.
Applicata all'antifemminismo, la prima teoria presuppone che la liberazione delle donne promossa dal
femminismo sia destinata a convertirsi nell'assoggettamento degli uomini, ottenuta
attraverso lo scatenamento della "guerra fra i sessi". Sarebbe la
misandria a muovere le femministe, interessate non tanto a stabilire
l'uguaglianza di genere, ma ad instaurare il dominio delle
donne sugli uomini.
La tesi della futilità insiste invece
sull'immutabilità delle strutture sociali. Secondo tale prospettiva,
rientrerebbe nell'ordine naturale delle cose l'assegnazione di funzioni e ruoli
diversi agli individui di ciascun sesso e la loro collocazione in una posizione
differente, sicché la battaglia femminista
volta a modificare l'assetto sociale e i
rapporti di genere si rivelerebbe essere
un'inutile perdita di tempo.
La teoria della messa a repentaglio, infine,
sottolinea il costo simbolico elevato che i mutamenti indotti dal femminismo
potrebbero comportare. Gli antifemministi invitano anche ad indirizzare la
lotta verso altre cause ritenute molto più rilevanti.
Francine
Descarries, nel saggio L’antiféminisme ordinaire, descrive, a sua volta, tre procedure retoriche
frequentemente adottate dai maschilisti: la deformazione, le semplificazioni
arbitrarie e il vittimismo. La prima consiste nella disinformazione che produce
l'illusione nostalgica dei bei tempi andati, nei quali la mente delle
"vere donne" non era obnubilata dall'ideale dell'uguaglianza di
genere. Le discriminazioni sono presentate come casi individuali, conseguenti
alla libera scelta di ciascuno, un'interpretazione che rientra anche nella
categoria delle semplificazioni arbitrarie che disconoscono il ruolo
condizionante delle strutture sociali. Un' altra distorsione è rappresentata
dall'affermazione che l'uguaglianza tra uomini e donne sia ormai realizzata, sicché le rivendicazioni
femministe vengono reinterpretate come azioni volte, in realtà, ad instaurare la dominazione femminile. Il vittimismo,
infine, consta nella raffigurazione degli uomini come vittime dei mutamenti
generati dal femminismo che ne avrebbe prodotto la femminilizzazione o, avrebbe, quanto meno, innescato
una devastante crisi della maschilità.
Un'altra
convinzione antifemminista, osserva Zoé Rüesch, sulla scia di Rosende, Perrin, Roux e
Gillioz, autrici dell'articolo Sursaut antiféministe dans les
salons parisiens (Rigurgito antifemminista nei salotti
parigini), è costituita dalla critica al cosiddetto "femminismo
vittimista", che descriverebbe - si sostiene- tutte le donne come vittime
e tutti gli uomini come carnefici. Tale valutazione assume, in realtà, la connotazione di
un'evidente semplificazione arbitraria e caricaturale che concorre a sminuire
la gravità della violenza maschile sulle donne. Si tratta della posizione
notoriamente assunta da Marcela Iacub, Hervé Le Bras ed Elisabeth Badinter,
che, in Francia, sono annoverati fra gli antifemministi.
A
rafforzare queste convinzioni contribuisce la letteratura
"psicologica" popolare, il cui modello è rappresentato dal libro Gli uomini vengono da Marte, le donne da
Venere di John Gray, che si prefigge, teoricamente, di offrire un sostegno
alle coppie in crisi, ma che, in realtà, si rivolge esclusivamente alle donne,
sollecitate a rinunciare a qualsiasi
anelito di indipendenza e di emancipazione per consacrarsi alla missione di
custodire e preservare l'armonia dei rapporti affettivi. La valorizzazione
delle competenze relazionali delle donne, in queste opere, svolge la precipua
funzione di convogliare le loro aspirazioni e i loro desideri di realizzazione
nella sfera domestica. Le femministe, in questa prospettiva, sarebbero
responsabili della disgregazione della coppia e della famiglia e del
perseguimento di interessi tanto egoisti quanto nefasti per il mantenimento del
benessere collettivo.
Se
queste sono, a grandi linee, le credenze propagate dall'antifemminismo, occorre
chiedersi perché esse siano così frequentemente interiorizzate dalle donne e,
prima ancora, perché queste ultime dichiarino spesso la propria estraneità al
femminismo.
La
prima ragione va individuata nel fatto che il neoliberismo valorizza il mito
dell'unicità, della singolarità dell'individuo
pienamente autonomo, concorrendo, così, a occultare il legame sociale,
l'interdipendenza di soggetti accomunati da interessi, valori, caratteri.
L'affermazione di questa ideologia rappresenta un ostacolo alla costituzione e al
consolidamento dei movimenti, che sono, appunto, raggruppamenti di persone che
condividono esperienze e condizioni di vita e perseguono i medesimi obiettivi.
L'individualismo è naturalmente in contrasto con l'espressione di
rivendicazioni collettive.
Proclamarsi
femministe oggi significa non solo voler sovvertire il sistema patriarcale, ma
anche rimettere in discussione alcuni dei valori che strutturano la società
neoliberista: l'autonomia, intesa come totale indipendenza dagli altri, l'individualismo e l'attribuzione ai singoli
della responsabilità delle ingiustizie che subiscono, quasi che le persone non fossero inserite in
un fitto tessuto di rapporti e le loro opzioni di vita non fossero condizionate
e limitate dal contesto, dalle strutture sociali, dal modo di produzione, dalle
norme culturali vigenti.
Dichiararsi
femministe, osserva amaramente l'autrice della tesi, sembra assolutamente insensato in un contesto sociale nel quale le
difficoltà e le diseguaglianze sono presentate come il prodotto di
"scelte" o il risultato di percezioni individuali e in cui gli
ostacoli e i limiti sembrano sconnessi dai processi collettivi e svincolati da
concetti quali il dominio maschile o la società patriarcale.
Un'altra ragione della scarsa
adesione delle donne al movimento femminista è da rintracciare nella diffusione
del post-femminismo che, presupponendo ormai realizzata la parità di diritti e
l'uguaglianza di condizioni fra uomini e donne, prospetta come reale la
possibilità di scegliere il modello di
vita più consono alle proprie esigenze fra
un'ampia gamma di opzioni supposte
accessibili a tutte alle medesime condizioni. Questa concezione comporta quindi
la negazione dell'esistenza di qualsiasi forma di condizionamento sociale,
depoliticizza le scelte individuali e, soprattutto, le presenta come la fonte
di eventuali diseguaglianze che sarebbero il prodotto di decisioni assunte
liberamente dalle singole donne. L'ideologia dell'ormai avvenuto compimento
dell'uguaglianza di genere e l'attribuzione delle discriminazioni alla
responsabilità individuale impedisce di lottare per sopprimere il sistema
patriarcale e la divisione sessuale del lavoro, giacché ne occulta l'esistenza.
All'illusione di disporre di una gamma infinita di opzioni
tra cui scegliere corrisponde l'ingiunzione sociale a conformarsi alla norma
della "perfetta femminilità", concepita come incompatibile con i
valori associati alle femministe.
Gli ideali di autonomia e di
autorealizzazione non si rivelano incompatibili con l'eteronormatività, che induce
le donne ad assumere un aspetto e un comportamento fortemente sessualizzato e
genderizzato per apparire seducenti
e rafforza il mito della
complementarietà dei sessi, a ciascuno dei quali vengono attribuiti determinati
ruoli e caratteri. Se l'inserimento in
campi tradizionalmente concepiti come maschili risulta socialmente, almeno in
parte, accettabile, è tuttavia necessario, per non turbare eccessivamente
l'ordine sessuale, che ciò si abbini alla desiderabilità, alla capacità di
sedurre. Ora, si suppone che la femminista non aspiri ad accendere il desiderio
eterosessuale e respinga l'eteronormatività. Nell'immaginario collettivo, ella
incarna l'ideale opposto a quello della donna seducente: non si trucca, non si
depila, non indossa gonne e abiti appariscenti e scollati, ma solo pantaloni,
non calza scarpe con i tacchi alti, ha i capelli corti. Inoltre, sempre secondo topoi ampiamente
diffusi, non possiede la tenerezza, la dolcezza, l'oblatività, la discrezione,
la bellezza, la fragilità, l'emotività, la capacità di ascolto generalmente attribuite
e imposte alle donne.
Gli stereotipi associati alle
femministe fanno, poi, riferimento all'identità sessuale, al grado di
integrazione sociale e al carattere.
Per il fatto di riconoscere la
natura socialmente e culturalmente costruita del genere e, soprattutto, di rimettere in discussione i ruoli
attribuiti a ciascun sesso, le femministe
vengono considerate devianti, una
valutazione estesa, conseguentemente, al loro orientamento sessuale. Lesbiche
(termine al quale viene, in base ad un radicato atteggiamento omofobico, attribuita
una connotazione negativa) o
misandriche, sessualmente inattive o, al contrario, iperattive, in ogni caso
"degeneri": così appaiono nell'immaginario collettivo.
Esse sono raffigurate, poi,
come affette da solitudine e votate alla marginalità sociale. Si ritiene che
una donna sia completa solo se ha
intrecciato una solida relazione sentimentale con un uomo e, poiché le
rappresentazioni sociali dei generi sono rigidamente dicotomiche, per essere
completa una donna deve essere il complemento dell'uomo. Dal momento che
contesta questo ruolo, la femminista viene
percepita come misandrica e deviante.
La solitudine è riferita
anche alla presunta assenza di figli, connessa al fatto che le femministe hanno lottato per ottenere che la sessualità fosse disgiunta dalla
riproduzione e per affermare l'idea della maternità come scelta, piuttosto che
come obbligo sociale.
Esse vengono poi descritte
come estremiste, "nazifemministe", convinte della superiorità delle
donne. Secondo tale concezione, poiché l'uguaglianza di genere è già stata
realizzata, la loro autentica, benché occulta, aspirazione sarebbe in realtà quella di assoggettare gli
uomini. Da qui l'accusa di essere misandriche e violente.
Viene loro imputato un
atteggiamento estremistico anche perché, per molti, non sono tanto le
discriminazioni a costituire un problema, quanto piuttosto la loro enunciazione
e denuncia da parte delle femministe. E' come se, pur ammettendo la persistenza
di certe diseguaglianze, queste fossero concepite come riconducibili a casi individuali
e come se la loro contestazione pubblica contribuisse ad infrangere l'armonia
che dovrebbe regnare fra i sessi. Per evitare di destabilizzare i rapporti con
gli uomini, le donne vengono sollecitate
ad assumere un atteggiamento conciliante, di rinuncia alle proprie
rivendicazioni, anziché adottare un comportamento conflittuale.
La sezione più interessante
della tesi di Zoé
Rüesch è quella empirica, imperniata sulle interviste a otto ragazze francesi e
svizzere, studentesse universitarie o laureate, di età compresa tra i 22 e i 30
anni che, pur condividendo alcune idee femministe, rifiutano di essere considerate tali.
Tutte
riconoscono la sussistenza delle asimmetrie di genere che si sostanzierebbero
nelle differenze salariali e contrattuali fra lavoratori e lavoratrici, nello squilibrio esistente nella sfera della
rappresentanza politica, più raramente nella disuguale ripartizione del lavoro
domestico e di cura. La violenza maschile sulle donne e lo stupro non sono
invece interpretate come questioni sociali, ma come effetti del temperamento
aggressivo o della follia di alcuni uomini. In altri termini, non viene riconosciuta
la natura strutturale della violenza, come "manifestazione dei rapporti di
forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione
sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e
impedito la loro piena emancipazione" (Convenzione di Istanbul).
L'ideale
egalitario delle intervistate è notevolmente temperato dall'enfatizzazione,
tipicamente neoliberista, della responsabilità individuale e della libertà di
scelta, che ostacola la percezione del carattere sociale delle diseguaglianze.
Si ritiene che ciascun individuo possa decidere autonomamente il proprio
destino, incluso quello di essere schiavo od oppresso e ciò è ritenuto più importante della realizzazione
dell'uguaglianza di genere. In tal modo, le strutture sociali e le
discriminazioni da esse generate non
vengono rimesse in discussione.
La
stessa segregazione orizzontale e verticale del lavoro è interpretata come
conseguenza dell'applicazione del principio meritocratico e, dunque, come
responsabilità diretta delle donne. Nel sistema produttivo, secondo tale
prospettiva, le posizioni apicali, le
mansioni più gratificanti e le remunerazioni più elevate vengono riservate ai dipendenti
più competenti o più produttivi e disponibili a svolgere ore supplementari di
lavoro e le donne, evidentemente, non rientrano in questa categoria: un discorso che
si può applicare anche alla rappresentanza politica. Si tratta di un discorso
che non prende minimamente in considerazione la realtà e le ragioni che
determinano la divisione sessuale del lavoro e
che trascura l'esistenza di
rapporti di forza fra uomini e donne.
Ritenere queste ultime responsabili degli ostacoli che si frappongono
alla loro carriera appare meno doloroso di quanto lo sia rappresentarsi il
mondo come un ambiente ostile che genera e rinforza le discriminazioni, poiché
concepire un problema come individuale, anche se coinvolge molte persone,
anziché sociale, offre ai soggetti
l'illusione che sia sufficiente modificare il proprio comportamento per
migliorare la propria situazione. Trasformare radicalmente l'ordine sociale,
sopprimere il sistema patriarcale appare molto più difficile, se non
impossibile. In tal modo, però, viene legittimata
l'esistenza delle diseguaglianze.
Le
intervistate assumono un atteggiamento individualista, percepiscono le
difficoltà come personali e particolari e ciò rende difficile la loro
identificazione con le femministe che evocano, al contrario, l'idea di una
collettività che concepisce le diseguaglianze come espressione di rapporti di
genere asimmetrici e, quindi, sa individuare le dimensioni comuni dei
percorsi soggettivi di vita.
L'illusione
di disporre di una completa libertà di scelta, l'individualismo e la
psicologizzazione costituiscono, dunque,
alcuni dei motivi che impediscono
alle intervistate di aderire al femminismo.
L'ultimo meccanismo da me citato consiste, secondo la definizione di
Patrizia Romito (Un silenzio assordante),
"nell'interpretare
un problema in termini individualistici e psicologici piuttosto che politici,
economici o sociali e nel rispondere di conseguenza in questi termini. E' un
meccanismo sociale potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione
e la potenziale ribellione. La psicologizzazione è quindi una tattica di
depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere
dominanti".
Non
solo.
Al
mito dell'ormai avvenuto raggiungimento dell'uguaglianza di genere si affianca,
paradossalmente in apparenza, la preoccupazione di naturalizzare le differenze
fra i sessi. Le intervistate si sono mostrate sensibili alla possibile
influenza esercitata dalla biologia sulle scelte di vita degli individui, sulle
loro predisposizioni ed aspirazioni. Se esiste
un istinto materno, se le donne dispongono ontologicamente di maggiori
competenze relazionali rispetto agli uomini, è naturale che consacrino più
tempo di questi ultimi alle attività domestiche e di cura e che si adattino più facilmente allo svolgimento
di un lavoro part-time. Questo essenzialismo rende avulso alle intervistate il
femminismo dell'uguaglianza, ma, paradossalmente in apparenza, anche quello
della differenza, poiché quest'ultima
viene concepita come complementarietà armoniosa tra i sessi. Di conseguenza, la
costituzione di collettivi di donne che elaborano proprie teorie, adottano
determinate pratiche, formulano rivendicazioni autonome è percepita come una manifestazione
di avversione agli uomini. Inoltre, la pratica e il linguaggio della
contestazione, dell'opposizione, della lotta per conseguire un obiettivo sono
ritenuti prettamente maschili, estranei all'essenza femminile. Le donne
disporrebbero piuttosto di un'attitudine naturale a promuovere la conciliazione
degli opposti, a tessere rapporti, a prendersi cura delle relazioni con gli
uomini, a garantire il benessere di tutti i componenti del proprio entourage. Sarebbero
inclini ad esprimere tenerezza, non collera, combattività ed aggressività.
Una
preoccupazione che assilla le ragazze intervistate è quella di preservare
l'armonia della loro coppia. Il loro compagno è descritto come
un uomo meraviglioso, profondamente diverso dagli altri. Eppure la coppia, il
matrimonio, la convivenza sono, secondo molte ricerche, condizioni propizie al rafforzamento delle diseguaglianze fra i sessi,
in quanto caratterizzati ad esempio da una disuguale ripartizione delle
attività domestiche e di cura. Ma la coppia rappresenta, per le ragazze
intervistate, il luogo del libero dispiegamento dell'oblatività e
dell'abnegazione, "virtù" che comportano la rinuncia all'applicazione della giustizia
commutativa. Ora, la dedizione e il sacrificio di sé sono giustamente percepiti
come molto distanti dalla posizione rivendicativa delle femministe. Evocare le
discriminazioni, l'iniqua ripartizione delle incombenze domestiche e del lavoro
di cura che si realizza nell'ambito della famiglia, protestare o rivendicare
una differente suddivisione dell'attività di riproduzione significa attivare
comportamenti che potrebbero infrangere l'ideale di pace e di armonia della
coppia che sembra dominare la mente delle
intervistate. Una postura femminista comporterebbe per queste ragazze il
rischio di disgregare il rapporto con l'uomo cui sono legate.
Quanto
alla giustizia, se è socialmente accettata l'idea che uomini e donne debbano
godere degli stessi diritti, è altrettanto vero che, dovendosi quotidianamente
confrontare con discriminazioni diffuse in ogni ambito, le donne tendono ad
adattarsi a questa realtà, per renderla sopportabile. Alcune delle intervistate ritengono inoltre
che l'uguaglianza di genere costituisca un'irrealizzabile utopia e che pertanto
la battaglia delle femministe sia vana.
Non esiste alcuna società che non sia organizzata
secondo un principio gerarchico. E' sempre stato così, dappertutto. Vi è
necessariamente qualcuno che prende le decisioni e qualcun altro che le esegue.
E' così nel governo degli Stati, nella famiglia, forse nella coppia, in una
fratria. E' normale che sia così.
(Anne-Marie).
Se l'ordine sociale è
ritenuto immutabile, la lotta femminista risulta necessariamente priva di
senso.
A questa forma di
conservatorismo si associa il confronto con le altre donne, processo che conduce
a banalizzare le ingiustizie, dal momento che tutte le subiscono, forse anche
in forma più grave. La normalizzazione dell'iniquità soffoca, a sua volta, lo
spirito di rivolta.
La maggioranza delle ragazze
intervistate è sensibile alle discriminazioni che si manifestano nella sfera
pubblica e si dichiara in questo caso favorevole alle posizioni delle
femministe. Allorché, tuttavia, si fa
riferimento ai rapporti personali, le
ingiustizie non vengono più percepite come tali, ma vengono piuttosto reinterpretate
come manifestazioni delle naturali differenze fra i sessi, come espressioni
delle qualità, delle attitudini e delle competenze proprie di ciascun genere. Le
femministe sono allora descritte come donne estremiste e frustrate, in quanto inclini
a condannare "ingiustizie" che le altre sono in grado di tollerare
senza troppo soffrire. Sarebbero, in altre parole, delle vittimiste. Protestare
significa riconoscersi vittime dell'ingiustizia e lottare assieme alle altre
per eliminarla: ma è proprio questo l'atto che le intervistate si rifiutano di compiere.
Le femministe sono accusate di adottare un paradigma vittimario che presenta le
donne come vulnerabili, indifese, oppresse, assoggettate al dominio maschile.
Questa accusa provoca una dislocazione della responsabilità: le violenze
maschili sulle donne vengono occultate e
alle femministe che le denunciano viene imputata la colpa di dipingere tutti gli uomini come carnefici e tutte le donne come vittime.
Dalle interviste svolte,
osserva Zoé
Rüesch, affiora soprattutto un'inquietudine profonda di fronte all'ignoto, la paura dell'
omologazione dei sessi e
dell'indifferenziazione dei ruoli, il timore nei confronti di
rivendicazioni femministe che sono rivolte alla società, ma che sollecitano
anche a interrogarsi sulla natura delle relazioni intime fra uomini e donne. Al
di là dell'assimilazione delle rappresentazioni antifemministe, è soprattutto
la preoccupazione di dover ripensare l'organizzazione della propria famiglia o
le modalità di funzionamento del rapporto di coppia a intimorire le intervistate
e a renderle diffidenti nei confronti del femminismo.
Proprio perché
- conclude amaramente Zoé Rüesch - il termine "femminista" rinvia,
nel pensiero delle nostre intervistate, alla rimessa in discussione delle
strutture sociali e di un sistema di pensiero che assegna loro una posizione,
certo, subalterna, ma, nondimeno, famigliare, esse non vogliono essere assimilate alle femministe.
l'individualismo non è tutto da buttare. E io nella libertà di scelta continuo a crederci senza incolpare i poveri delle loro disgrazie.
RispondiEliminaLa Badinter (di cui non condivido tutto ma alcune cose sì) è una che dice cose scomode a volte per le stesse femministe come Camille Paglia in America..perciò non è amata
e che esista l'estremismo anche nel femminiso è vero ma semplicemente perchè esiste una parte estrema in ogni movimento di liberazione, ma la parte estrema non è il tutto
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